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N° 01 Ada Cortese

Ada Cortese

 CONFERENZA 

VIOLENZE PRIVATE E PUBBLICHE VIRTU’

Aggressività e Proiezioni

Con l’espressione "pubbliche virtù" vogliamo qui intendere ciò che ha a che fare con la "maschera sociale esibita", con la "facciata": una sorta di contenitore che mostra se stesso e nasconde l’ oscuro mondo interiore della Relazione.
Nasconde quel mondo linguistico in cui l’anelito sociale e amoroso si sposa agli equivoci e alla violenza. Questa sera il nostro interesse e la nostra analisi si occuperanno proprio di questo aspetto privato e nascosto della relazione soprattutto per quanto riguarda il concetto soggettivo di violenza.

Alla voce "violenza" il dizionario così recita: "Qualità di ciò che agisce con forza - Mezzo tattico col quale l’individuo esercita il suo potere".
Violenza e potere sono categorie universali necessarie alla vita e richiamano, al di là del bene e del male, il concetto di forza..
Non esiste pertanto in assoluto una violenza buona o una cattiva.
D’altronde, come per ogni esperienza, l’uomo può percepirne soggettivamente il versante "positivo" (l’esercizio vitale della forza agita) e il versante "negativo" (l’effetto della forza subita vissuto soggettivamente come brutale) a seconda che venga o meno appagato il suo interesse, egoico o spirituale che sia.
La "scelta" tra i due predicati è relativa all’universo linguistico-relazionale sia di chi la esercita che di chi la subisce.
V’è comunque una violenza della vita. Violenza come evoluzione che impedisce all’uomo l’Eden e la pace immediata. V’è la violenza relazionale psicologica che nasce da incomprensione fra i due del rapporto e v’è una violenza nascente da conflittualità interiore.
Quasi tutte le violenze possono produrre benefici effetti anche sulla "vittima" se essa, cioè il soggetto sa porsi in modo non egoriferito nella relazione con sè e con l’altro, se sa cogliere un senso sovraindividuale che lo sprona alla ricerca. Ma questa è una condizione di pochi eletti che in questa loro capacità di leggere tutto nell’affermativo hanno già superato ogni opposizione.
Questo accade raramente perchè impera l’Edipo che fonda le identità parziali e che ingabbia il soggetto, inconscio di sè, in un vissuto di mera fragilità. Non può essere che così nell’Edipo che costringe l’uomo al puro rapporto d’interdipendenza. E’ proprio questo vissuto rimosso che, più di ogni altro parametro, s’impone come causa della violenza interpersonale, quella fisica compresa.

Nell’interdipendenza io sono perchè posseggo l’altro e se l’altro non risponde alle mie aspettative, non io sono colpevole ma l’altro che mi sfugge, che esprime quella libertà che l’interdipendenza non sopporta.
Al di là delle risposte personali e dei parossismi a cui può giungere la violenza, se è vero che l’interdipendenza è il modello interazionale "legale", non c’è da stupirsi che essa generi, come sua fisiologica conseguenza, proprio il vissuto della violenza. Ogni negazione di libertà lo genera perchè è nello statuto della natura umana la ricerca di rapporti intersoggettivi.
D’altra parte, sappiamo che la vita è identità di opposti e ciò vale anche per la natura umana. Questo ci fa ricordare che se per un verso l’uomo è tale perchè è coscienza crescente, perchè è la sintesi autoconsapevole dell’Essere in se stesso, dall’altro l’uomo è anche animale istintuale ancora soggetto ad automatismi interni che, se ieri erano funzionali alla preservazione della vita (istinto dell’attacco e fuga, del possesso del territorio, della femmina, ecc.) , oggi si costituiscono come sacche di preistoria umana che disturbano il procedere della coscienza stessa.

L’uomo attraverso la psicoanalisi, e dunque l’Essere tutto attraverso di lui, ha impostato una ricerca che lo coinvolge e che presuppone l’identicità di soggetto osservatore (l’uomo) e oggetto osservato (la psiche) . L’Essere vuol conoscere se stesso e sostiene che dove c’è’ l’Es (la pulsione, l’istinto, l’inconscio) dovrà trionfare l’Io (la coscienza).
Ciò significa che l’uomo (e l’Essere in lui) sa perfettamente di dover combattere strenuamente contro la sua stessa prima natura, contro ciò che "fin qui" affermava da sè la propria legge.
Un esempio dell’anacronismo a convivere, come nulla fosse successo nel mondo psichico dell’uomo, nella sua società, possiamo ben osservarlo confrontando il modello materno negli animali e nell’umanità. Cose paradossali sembrano emergere: nel mondo animale la madre allontana anche malamente, giunto il momento, la propria prole da sè. Nel mondo umano spessissimo accade il contrario: la madre perde la memoria dell’istinto materno animale che la porterebbe, anche se il tempo di convivenza con la prole è più lungo, ad allontanare da sè i propri figli e per amore, per forza e per coscienza consegnarli al loro personale destino. Ella tende invece a incatenarli a sè a vita.
Perchè? Io credo che insieme ad altre cause, ciò accada perchè la donna è relegata nel mondo naturale, dell’istinto. Ciò accada per un potere che non le viene riconosciuto, il potere dell’essere umano: trasformare l’inconscio, la natura in coscienza. La violenza della madre che ne deriva è dunque reattiva ad un’aggressione sociale che una cultura, un Logos immaturo ancora le riserva. Per la donna, che può essere solo madre, non vale lo statuto umano. Nell’essere umano femminile l’Uomo non è riconosciuto. L’istinto si ammala e crea danni proprio in quel mondo culturale e sociale che non porta a completamento la sua umanizzazione. L’istinto, attraverso la donna, impedisce al pensiero, attraverso l’uomo, di procedere da solo. E lo rende impotente. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
L’istinto, nel mondo umano e in questo esempio, da positivo si fa negativo, Ombra di se stesso. Ma come Ombra esercita il suo provvidenziale compito: essa impedisce alla coscienza umana di procedere in una distorcente unilateralità.
Ma non voglio inoltrarmi in questo specifico argomento peraltro già affrontato in altri incontri. Con questo esempio io voglio solo segnalare la commistione di istinto e cultura, di una loro possibile sinergia quando la coscienza prevale (perchè essa sa trasfigurare l’istinto) , di una loro reciproca e possibile patologia quando prevale l’inconscio (perchè esso schiavizza l’uomo costringendolo a comportamenti istintuali, ossia coatti).

Se dunque è il sistema relazionale oppositivo dell’interdipendenza edipica che causa la violenza basandosi esso sulla rimozione e sulla rigida divisione dei ruoli (conscio-inconscio, maschio-femmina, istinto-cultura ecc.) come si può scindere nella relazione medesima il carnefice dalla vittima? Come si può prendere le parti della seconda contro il primo? Finchè restano nella relazione interdipendente entrambi ne accettano le regole e dunque entrambi collaborano a creare ciò che proprio il modo della loro relazione produce: il vissuto della violenza.
Certo, ci sono vari livelli di violenza ma anche quando si giunge alla violenza fisica, allo schiaffo, fino allo omicidio, è sempre il più debole della relazione, ossia il meno cosciente che ad essa ricorre. E non credo sia mai questione di scelta. Dal suo punto di vista egli non aggredisce, egli difende l’economia del suo sistema il quale dunque, celato sotto infinite spoglie, ha a che fare quasi sempre con la "patologia" del possesso.
Se la società celebra l’avere e non l’essere come segnale della presenza dell’Uomo al mondo, non c’è da stupirsi che ognuno a modo suo cerchi di avere il più possibile. E ciò è denominatore comune sia per le nazioni attraverso le guerre (per possedere potere, territori, beni ecc.) che per i singoli i quali nei loro rapporti, a loro volta, cercano di possedere il più possibile: beni e persone.
Ho accennato a considerazioni contraddittorie tra loro per segnalare quanto poco a se stante la violenza possa essere considerata. Essa si compenetra con le dinamiche fondamentali della vita; essa, in quanto "forza agita", rappresenta l’élane vitale: quell’energia che impedisce la staticità del mondo.
Difficile operare una sistematica perchè sarebbe come voler imbrigliare e controllare la molla universale del movimento e delle trasformazioni.
Ma, restituendoci al nostro buon senso umano e alla nostra conoscenza, possiamo riconoscere forme di violenza da cui la coscienza ci potrebbe liberare, se essa fosse esercitata, alimentata al massimo; se essa si facesse veicolo e organo di percezione dell’universale.
La coscienza non può liberarci dalla norma universale della "Violazione" continua. Ma potrebbe spostare di piano il vissuto soggettivo da essa provocato. Tale vissuto potrebbe così abbandonare il piano edipico dell’esperienza per acquisire una più ampia e universale percezione del Sè.
La violenza edipica è la violenza concretistica, quella esercitata da chi nella relazione non sa che possedere, e chi possiede non ha come interlocutori dei soggetti: semplicemente non ha interlocutori. Ha solo oggetti da possedere, corpi.

Possesso, paranoia conseguente a chi non ha certezza di se stesso, autolegittimazione alla violenza ridotta a semplice "reattività" da chi la esercita (c’è sempre un provocatore fuori che sia una nazione, un popolo con credo religioso diverso, una razza diversa, che sia un essere umano, un clan non importa) sono gli ingredienti che si accompagnano, in questa breve analisi, alla personalità (e alla cultura) edipica, ossia a quella personalità costretta a una identità che necessariamente viene dimezzata dal processo (normalmente previsto dalla psicoanalisi ortodossa) di identificazione nel proprio simile (l’uomo col padre, la donna con la madre).

Da tale primaria rimozione dell’Altro, del diverso che pure in ciascuno è presente, nasce l’impossibilità al rapporto umano e la predisposizione socialmente legittimata alla pirateria, al saccheggio, alla violenza vissuta come "cattiva", simbolica o reale che sia (anche se tale impossibilità resta nascosta dietro l’abito menzognero dell’ideologia con cui vengono predicati rispetto e libertà dell’Uomo e dei Popoli).

Noi dovremmo parlare, restringendo l’analisi, di violenze private, di violenze interpersonali, cioè di violenza intesa come effetto brutale della forza subita (effetto come recezione e/o reazione brutali).

Nel contesto delle relazioni interpersonali essa si mostra sempre come un fenomeno reattivo e quindi difficile da esaminare avulsa dall’universo in cui si manifesta (pensiamo all’iper-reattività patologica dei maniaci sessuali, alla spirale paranoica di certe relazioni di coppia, agli "equivoci linguistici" generati da comportamenti inconsciamente provocatori) .
Ciononostante, la violenza, nell’individuo che la subisce (al di là del problema linguistico e della difficoltà di comunicazione di cui essa è il sintomo) , rappresenta un "reale problema traumatico". E’ proprio tale problema ciò che ci interessa per il dolore che sprigiona.
Dal punto di vista psicologico è metodologicamente utile definire come violenza "la causa" di quel particolare e pernicioso "effetto" prodotto in chi la subisce e giudicato dal suo particolare punto di vista. Essa, simbolica o fisica che sia, è sempre avvertita come una grave intrusione, una violazione della propria sacralità, richiamando così vissuti di "profanazione" e contaminazione che possono compromettere la vita affettiva della "vittima".
Secondo la psicologia analitica e la filosofia sperimentale è necessario non "sterilizzare" i sentimenti di rabbia, di dolore e di "profanazione".
Questi sentimenti devono essere espressi in un contesto capace di accoglierli e di immedesimarsi in essi, assorbendoli, per contenerli insieme. Devono essere espressi in tutta la loro intensità (recenti o remoti che siano) , non solo per raggiungere una sorta di "catarsi" che faccia del brutto episodio un ricordo vuoto privo di connotazioni emozionali, ma soprattutto per liberare l’energia psichica del soggetto che è rimasta imprigionata in quel trauma e che potrà diventare carburante per un passo avanti nella consapevolezza.

Uno dei sintomi frequenti rispetto al tema in oggetto è la violenza a sfondo sessuale che molti analizzandi ricordano d’aver subito quando erano bambini da parte di parenti molto prossimi. Non incesto ma quasi. Non si pensi a situazioni di ignoranza e povertà, o a vicende da profondo Sud. Non si pensi che ciò non avvenga più oggi: vediamo diciottenni che di ciò raccontano anche come realtà del loro universo presente. E non si tratta di simulazioni perchè anche i loro sogni ne danno conferma.
Una mia giovanissima allieva venne da me denunciando la propria irritabilità, la propria depressione e la propria ingiustificata aggressività verso i genitori.
Nel corso del trattamento è emerso l’atteggiamento erotico e seduttivo del padre nei suoi confronti: "coccole" fastidiose e apprezzamenti stonati verso i quali a nulla valevano le sue male parole e l’invito rabbioso al padre a rivolgere queste attenzioni alla moglie. Anche agli amici egli esibiva e sottolineava le fattezze della figlia qualora ella, transitando per casa, si trovava a passar nei loro pressi.
Dalla madre peraltro non le arrivava alcun aiuto e alcuna solidarietà. Madre depressa e ancor più della figlia sottomessa al marito. Due sogni testimoni della brutalità del maschile incarnato dal padre sono i seguenti:

>La sognatrice vede un uomo che si protegge le spalle con la pelle scuoiata di una donna. Sta andando da un ragazzo della sua età per ucciderlo. Lei fa di tutto per avvisarlo.
Angoscia indescrivibile.<

>Nella loro casa il padre, con ghigno sadico e atteggiamento volutamente provocatorio, dice a lei e alla propria moglie che mostrerà loro un magnifico spettacolo: fa entrare e sfilare avanti a loro molte prostitute con atteggiamento volgare a cui egli partecipa attivamente. Vede poi suo padre in bagno steso a terra tra la madre e una prostituta. La sognatrice è furiosamente arrabbiata con la madre che subisce anzichè andarlo a denunciare. Lei vorrebbe farlo al posto suo ma non è in suo potere. Cerca allora di mettersi in salvo uscendo dalla casa e cercando di attirare su di sè l’attenzione di un uomo brutto ma buono che sta entrando nel portone del palazzo. Ce la fa e si salva.<

Cosa rilevante è che la sognatrice è davvero riuscita ad attirare su di sè l’attenzione ponendosi come inadeguata, malata di nervi ecc.
Voglio sottolineare che il padre della giovane donna non è un "cattivo padre" in assoluto. E in effetti ci sono voluti mes i affinchè lei potesse permettersi di raccontare il motivo dell’aggressività che prova verso di lui. Prima c’era solo la sua rabbia apparentemente isterica. In realtà, come nel sogno, ella ha cercato di attirar su di sè l’attenzione. E quando siamo giunte, in virtù del lavoro svolto insieme, a poter chiamare le cose col loro nome, ella ha trovato il senso del suo disagio, lo ha superato e abbiamo potuto concludere il nostro rapporto.
In sintesi, ella ha potuto comprendere cosa accade in suo padre senza che lui lo sappia, ha potuto liberarsi del fantasma di un "mostro depravato" e, con nuova coscienza e riflessività, ha acquisito gli strumenti in grado di proteggerla dall’inconscio parentale.
Di questo genere di violenza negativa e di altre anche più brutali avremo modo di parlare nel gruppo d’incontro. Ma sappiamo che v’è un genere di violenza più sottile, più subdola e più generale, quella psicologica a vari livelli che si nasconde tra le pieghe del rapporto interdipendente.

L’inconscio sembra assai determinato comunque a ribadire la necessità di sottrarsi ad ogni tipo di tentazione a reagire alla violenza con la violenza. Esso impone a chi gli si fa disponibile la rottura della logica. Esso invita ad un gesto che non è tranquillo e pacifico, esorta sì all’esercizio della forza, ma esercizio che è diretto a se stessi e non all’altro. Nel rompere la logica del rapporto interdipendente non è all’altro che s’infligge la frustrazione e il dolore ma in prima battuta a se stessi.

Non si sfugge dunque all’esercizio della violenza, ma stavolta si tratta di forza benefica posta al servizio della trasformazione dei rapporti umani. L’inconscio dice che è necessario passare dall’esercizio della legge del taglione che prevede il concetto di "nemico" e che coincide col rapporto oppositivo edipico (ove impera la mera legge del tabù dell’incesto) alla legge amorosa del "porgere l’altra guancia" che scandalizza quanto affermare la legge dell’incesto simbolico semplicemente perchè sono la stessa legge e definiscono lo stesso rapporto: quello intersoggettivo in cui ciascun uomo riconosce d’aver come suo bisogno l’altro se stesso, l’altro uomo, l’altro Soggetto.

La legge del taglione fu utile in passato perchè psicologicamente rappresentava il modo con cui al soggetto si faceva presente il suo potere e il diritto alla difesa con gli stessi mezzi esercitati dall’altro contro di lui.
Una legge primitiva ma efficace per scoraggiare l’esercizio della violenza stessa. L’altro sa che se mi aggredisce, io lo aggredirò. Questa logica (della tensione e del deterrente) ha portato, per esempio, al proliferare delle bombe atomiche su tutta la Terra.
Ebbene questa legge è ormai anacronistica perchè la coscienza è cresciuta e con essa il bisogno di incontro, il bisogno d’amore tra l’uno e gli altri. Per le coscienze più evolute seguire questo anelito non è cosa pacifica, melliflua nè può rappresentare vigliacca fuga contro le durezze della vita. Essa richiede, come diceva un messaggio dell’inconscio di operare "una violenta violazione": violare la legge del taglione (la legge del tabù dell’incesto) significa esercitare una forza su se stessi, e quindi significa violentarsi rispetto alla tentazione di reagire all’altro e alla forza brutale da lui agita. I sogni più di altre considerazioni sanno esprimere questa necessità:

> La sognatrice vede che i suoi colleghi indossano giubbotti antiproiettile perchè, si dice, non è più possibile vivere e lavorare senza difese data la massiccia presenza di violenza negli uomini. Anche a lei ne consegnano uno ma ella lo rifiuta terrorizzata perchè sa che è proprio nel giubbotto che risiede il pericolo mortale.<

>Un luogo di transito pubblico, forse una galleria cittadina o un sottopassaggio. Da un lato tanti giovani uomini yuppies con la ventiquattrore e in doppio petto, dall’altra molte donne tra cui la sognatrice. Entrambi sono in attesa o di un mezzo che arrivi o di qualcuno, attesa comunque finalizzata al loro rispettivo lavoro. Gli uomini s’accorgono delle donne e cominciano a lanciare su di loro pietre e altri oggetti contundenti che nella traiettoria passano sopra la testa dei passanti: uomini, donne, bambine, di tutti i ceti, di tutte le razze e di tutte le età. Si sa nel sogno che proprio i passanti rappresentano il Grande Potere. Essi s’accorgono del grande sopruso e della violenza gratuita degli uomini verso le donne ma restano indifferenti. Ciò fa crescere la rabbia della sognatrice che comincia a redarguire duramente gli "uominastri fascisti" (così erano identificati nel sogno gli uomini aggressori) i quali, quasi non aspettassero altro che la raccolta della provocazione, si avvicinano alla sognatrice e, sempre nella generale indifferenza, "violenti e vincenti" la immobilizzano, la pestano e...segue il risveglio.<

>Il sognatore è inseguito da giovani teppisti armati di spranghe e catene che fanno sinistramente ruotare. Il sognatore ha paura ma sa che solo se resterà nella presenza e nell’indifferenza totale quelli non potranno nulla su di lui.<

Al di là delle storie personali e delle letture egoiche, accade che l’inconscio anche nei sogni ribadisca il loro destino di "uomini non violenti", destino che va accolto però attivamente e ciò implica quella violenza su se stessi, sull’istinto di appartenenza al gruppo, richiede l’esercizio di una forza che niente ha a che fare con la forza dei muscoli ma che sicuramente è molto più faticosa perchè passa per l’autolegittimazione e per la solitudine (la legge psicologica non è più quella socialmente condivisa) .
Io credo che siano proprio questi soggetti (le donne e gli uomini "miti") rientranti spesso nella categoria dei "rifiutati" socialmente, quelli che potrebbero fare l’umanità del futuro. E non perchè siano innocui ma perchè nella loro cosiddetta mitezza v’è la violenza della verità evolutiva.

I rifiutati in realtà rifiutano la società umana della violenza negativa. Essi agiscono una forza positiva. Tutto questo è vero se ne sono coscienti. Chi non porta a consapevolezza il significato evolutivo non può interpretarsi che negativamente, cioè "male-dirsi" e quindi restare suddito della vecchia logica che il suo cosiddetto malessere voleva trasformare. A ciascuno di noi la responsabilità d’interrogarsi.

8 Ottobre 1993

Ada Cortese


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