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N° 01 Agnese Galotti

Agnese Galotti

 CONFERENZE 

GESTO E CONTEMPLAZIONE

I modi dell'Essere.

Dalla sua esperienza professionale Jung trae, fra le tante, un’osservazione che, a partire dalla diversità esistente tra gli individui singoli, lo induce a cogliere l’esistenza di tipologie psicologiche più generali. In particolare egli osserva che "esistono individui il cui destino è determinato in prevalenza dagli oggetti dei loro interessi e altri il cui destino è invece determinato piuttosto dalla loro interiorità o soggettività". Nei primi il moto dell’interesse e dunque della libido va dal soggetto verso l’esterno, verso l’oggetto fuori, nei secondi invece il moto va (o torna) dall’oggetto esterno verso il soggetto, in una sorta di ritiro della libido.
In ogni tipo inoltre - prosegue Jung - è insita una particolare tendenza a compensare l’unilateralità, generalmente con "aggiustamenti" inconsci, il che spiegherebbe l’origine di alcuni gesti, comportamenti o atteggiamenti apparentemente in disaccordo con la personalità prevalente.
Onde evitare generalizzazioni semplicistiche, o peggio ancora il rischio riduttivo di schematizzare in maniera rigida la complessità del vivente, sistemando ciascuno all’interno di classi di appartenenza, vogliamo invece considerare, anzi valorizzare, l’esistenza di sfumature e sfaccettature particolari, presenti in ogni singolo individuo, che rendono giustizia alla complessità insita in ciascun soggetto umano, preso nella sua individualità.
Ciò che emerge, infatti, è che ogni uomo trova in sè attivi entrambi i meccanismi più sopra descritti, che Jung definisce rispettivamente Estroversione ed Introversione: in ciascuno, cioè, la libido, intesa come energia pulsionale, è soggetta sia al moto verso l’esterno e sia al moto verso l’interno, ed è solo il prevalere dell’una o dell’altra delle due direzioni a costituire eventualmente il tipo psicologico di appartenenza.
Più che focalizzare l’argomento in termini di differenze psicologiche individuali ci interessa qui cogliere questa dinamica di moto a doppia direzione dell’energia vitale che abita in noi, ed indagare sulla necessità, anche in questo caso, presente nell’essere umano, di ricercare di volta in volta, un equilibrio, per quanto precario esso possa essere.
Al normale svolgersi della vita dovrebbe corrispondere un ritmico alternarsi di entrambe le forme psichiche di attività. Tuttavia non è raro osservare nei singoli individui, così come in particolari periodi storici, o ancora, in intere civiltà, il prevalere dell’atteggiamento introverso a scapito dell’estroverso o viceversa.
Per esempio: pensiamo all’atteggiamento generale presente nel pensiero orientale, col suo intimismo e la spiccata ricerca dell’ascesi nirvanica, e al contrapposto pensiero occidentale, nei suoi aspetti più marcatamente materialistico-scientifici. In entrambi possiamo cogliere la tendenza ad una unilateralità.
Varie sono state le definizioni che l’uomo ha dato, nei diversi contesti culturali, a questi due meccanismi: Jung cita, tra gli altri, Goethe, che parla di "sistole e diastole" con evidente riferimento alla necessità vitale di entrambi; cita Nietzsche, che definisce i termini fondamentali della sua antitesi "Apollineo" e "Dionisiaco", intravvedendo in Apollo una sorta di personificazione del "principium individuationis" che privilegia la visione interiore, mentre in Dioniso scorge lo scatenarsi della dynamis, animalesca e divina ad un tempo, la liberazione dell’istinto di vita primordiale. Anche qui la conciliazione di entrambi è rappresentata dall’ideale di "greco civilizzato". Cita ancora, mutuandoli dall’antichissima filosofia cinese i due principi complementari dello yin e yang, che nella cultura orientale compongono il Tao.
Ciò che emerge con maggiore forza è in ogni caso la necessità della conciliazione tra i due impulsi, il che appartiene senz’altro al mondo della religiosità nel senso etimologico di "religo" unire, mettere insieme. Ma questa, come vedremo, non è più prerogativa esclusiva delle religioni come pratiche confessionali.
In termini più strettamente psicologici questi principi sono chiaramente individuabili nei due atteggiamenti fondamentali di estroversione e introversione: anche qui è evidente la necessità che siano attivi entrambi in ogni soggetto umano, e che si realizzi la ricerca di un atteggiamento il più possibile dialettico tra i due, affinchè sia possibile una vita equilibrata.
E’ necessario che il soggetto investa la propria libido - intesa come energia vitale - sugli oggetti esterni, sul mondo sociale ed oggettuale che lo circonda: egli ha bisogno di relazionarsi con l’altro empirico, di incidere attraverso il gesto, l’azione concreta sul mondo circostante. Ha bisogno di determinare di volta in volta il proprio esserci attraverso un gesto preciso, tangibile ed incisivo, di lasciare il segno. Ciascuno ha necessità - ed è la vita stessa a pretenderlo - di portare di volta in volta in "atto" ciò che in sè è in "potenza", rinunciando ogni volta alla totalità che solo in ciò che resta allo stato potenziale permane.
A ciò è legato, almeno in parte, il concetto junghiano di Persona, quale funzione di mediazione tra l’Io ed il mondo esterno, che si serve via via di ruoli in cui il soggetto si cala, al fine di sviluppare la capacità di relazionarsi al mondo. Di per sè, come ogni archetipo, la Persona non è nè buona nè cattiva. Il rischio di patologia legato ad essa è dato dalla sua inflazione: accade spesso che il soggetto cada nell’eccessiva identificazione con questo aspetto della sua personalità - ci si identifica col proprio essere madri, figli, padri, direttori d’azienda o subalterni, insegnanti o allievi, .... - dimenticando completamente la propria integrità di soggetti umani, al di là di qualsiasi ruolo o limite sociale. In questi casi ciò che viene sacrificato è il rapporto col proprio Sè, con il proprio inconscio.
Altrettanto necessario risulta, d’altra parte, che il soggetto mantenga viva e sviluppi la funzione complementare a quella rappresentata dalla Persona, quella cioè che media il rapporto tra l’Io e il mondo interno, tra l’Io e l’inconscio, archetipo questo, che Jung ha definito Anima, quale funzione che consente di aprire il dialogo con l’inconscio e di realizzare il proprio divenire individuale. Ma ciò comporta un ritiro della libido dagli oggetti esterni e un reinvestimento nell’interiorità cui l’Anima stessa conduce. Il recupero consapevole di questa funzione, del rapporto cioè tra coscienza e inconscio, è ciò che consente di sviluppare quella che Montefoschi chiama capacità di autogoverno, ciò che ci consente davvero di farci adulti.
Finchè non avviene un recupero consapevole del rapporto esistente tra l’Io e l’inconscio, non è che questo rapporto non ci sia: l’inconscio trova il modo di interferire ma il soggetto non riconosce quelle istanze come proprie e resta incapace di gestirle. In questi casi si prolunga ben oltre la fase dell’infanzia la delega ad una figura genitoriale affinchè gestisca lei il rapporto del soggetto col proprio inconscio.
Nella nostra cultura, nel contesto sociale del mondo occidentale, è indubbia la prevalenza di interesse per la Persona a scapito dell’Anima: l’alienazione da sè, dai propri bisogni più profondi, il disconoscimento dei propri sentimenti interiori sono il prezzo che paghiamo per l’eccessiva attenzione prestata agli oggetti fuori, che ci portano alla frammentazione più pericolosa. Gli oggetti esterni prevalgono fino al parossismo sul soggetto in noi.
Quel che ne risulta, paradossalmente, è un vissuto di marcata impotenza.
A ciò fa riscontro un malessere diffuso, dovuto soprattutto a questa esagerata mancanza di equilibrio, malessere che, se colto nel suo aspetto positivo, si rivela essere la nostra risorsa: il riemergere in noi di quel bisogno di ri-unione con noi stessi che solo ci può restituire serenità.
Quasi sempre chi incorre nell’analisi presenta, seppur celata dietro i più svariati sintomi, questa profonda necessità di riequilibrio: è, spesso inconsciamente, alla ricerca di questo reincontro con sè, di questo atteggiamento religioso capace di riunire in sè inconscio e coscienza, di far dialogare il soggetto con la propria anima. Ecco allora il bisogno di sospendere l’azione, di allentare i legami col mondo esterno, di ritornare a sè, alla propria interiorità.
Ecco il senso profondo insito in quel clima di particolare raccoglimento che l’analisi richiede, per farsi attenti e presenti a quei tesori preziosi cui l’anima conduce chi le si affida, nelle profondità di sè, fino all’incontro con Dio e alla sua contemplazione.
In questo senso il lavoro analitico ha molto a che fare con la religiosità nel senso più appropriato del termine: è la nuova via di iniziazione a quel mondo che riguarda ciò che è intangibile, invisibile ai cinque sensi orientati sul mondo esterno, ma tanto reale quanto potente in ciascuno di noi, il mondo del simbolo insomma, che sfugge sempre ad ogni spiegazione troppo razionale, che non si lascia mai racchiudere in definizioni conformi ai principi della logica razionale. Eppure il simbolo, il rapporto con esso, è ciò che ci caratterizza in quanto umani.
Jung, nel suo ampliare il concetto di libido rispetto all’accezione che Freud ne aveva dato, spiega che quando l’uomo ha esplorato tutte quelle attività che concernono l’istintualità animale, quando cioè ha soddisfatto tutte le pulsioni primarie quali sonno, cibo, sesso, ecc... non ha esaurito tutta l’energia a sua disposizione: resta un quantum di libido disponibile che torna a cadere su di lui .Essa può avere per oggetto adeguato soltanto il simbolo: è così che sono nate le religioni e tutto ciò che di culturale l’uomo ha prodotto.
In questa visione l’attività simbolica e quindi la realtà spirituale, in Jung, a differenza di quanto avviene in Freud, è ravvisata quale esigenza primaria dell’uomo, originata da quell’eccedenza libidica che gli appartiene, la cui considerazione e corretta canalizzazione è necessaria all’umana salute psichica. Quindi in una determinata fase della vita - quella che Jung definisce la "seconda metà della vita" - l’uomo si trova a fare i conti con una sofferenza della psiche che non ha altra spiegazione se non la mancanza di senso. Se l’uomo non ha fin lì trovato il significato del vivere nel ricercare fuori di sè, cioè nel coltivare l’amore per oggetti che si trovano nel mondo, non può che tornare a sè: questo è il momento in cui l’elemento di sofferenza, la mancanza fin qui vissuta come distruttiva, si trasforma in elemento guaritore, in quanto mostra la sua capacità di risvegliare gli archetipi nelle profondità dell’inconscio, che sanno creare un’intensificazione dell’attività psichica più profonda - o più elevata, che è lo stesso.
Allora si crea una situazione particolare: non solo quell’energia in più fluisce verso il suo proprio oggetto, il simbolo, ma produce un’attrazione tale da far sì che altre quantità di libido si liberino dagli oggetti di amore consueti e vengono incanalati in questo nuovo oggetto d’amore che è il simbolo.
E il simbolo più elevato che l’uomo in sè può trovare è proprio l’immagine di Dio: vale a dire l’esperienza più intensa e potente cui l’uomo ha da sempre dato il nome Dio.
E’ così che dal punto di vista della psicologia analitica si spiega il risvegliarsi dell’attività spirituale e il comparire dell’immagine di Dio: è la manifestazione di una quantità di libido che, liberata dagli oggetti esterni in cui era imbrigliata, diventa autonoma e capace di attivare un’immagine dotata di potere straordinario. Dio è quindi la più alta intensità di vita cui possiamo accedere, il significato più elevato che ciascuno può trovare nell’inconscio.
Ciò che caratterizza l’attivazione di tale archetipo, per dirla con Jung, è che si sovrappone assolutamente alla volontà cosciente del soggetto, e può imporre e rendere possibili atti e realizzazioni che la coscienza, con i suoi sforzi, non sarebbe in grado di attuare. E’ la percezione di una forza strapotente che si attiva in noi, dall’inconscio, e che, in quanto tale, trascende la nostra soggettività individuale. Tra i vari atteggiamenti "religiosi", l’atteggiamento dei mistici - quali individui dediti alla conoscenza sperimentale di Dio, attraverso il tentativo di porsi, con la divinità, in rapporto diretto - è il più vicino a questa concezione, in quanto mette in evidenza l’estrema vicinanza tra Dio e i contenuti inconsci. Egli infatti, come questi, si fa percepibile soggettivamente.
In questo si manifesta la reciprocità del rapporto Dio-uomo: in quanto la manifestazione dell’uno passa attraverso l’esperienza viva dell’altro. Ma prendere atto di questa realtà presuppone che il soggetto presti un’attenzione maggiore di quella abituale all’esistenza in lui dell’anima, che sia avvenuta cioè una straordinaria accentuazione della propria interiorità, che sia stata restituita all’inconscio stesso la sua autonomia dal mondo esterno, dalle situazioni concrete, cui sottostava finchè sussisteva la proiezione.
Deve essere avvenuta insomma una fase di introversione particolare, con relativo ritiro dell’investimento libidico dagli oggetti esterni. Allora i contenuti dell’inconscio vengono riconosciuti come provenienti dal soggetto stesso e da lui, almeno parzialmente, condizionati.
Il merito dei mistici è allora quello di aver incarnato, reso tangibile, esperito fino in fondo e quindi testimoniato quella indissolubilità che lega l’uomo a Dio e Dio all’uomo, per cui l’uno non potrebbe esistere senza l’altro - l’uomo senza Dio ma neppure Dio senza l’uomo - attraverso lo strumento principale che è senz’altro la contemplazione, quale prolungata e intensa applicazione delle facoltà spirituali-intellettive su un argomento.
Questa stessa indissolubilità è detta in forma esplicita in un sogno:

> Una voce diceva alla sognatrice ed ai suoi compagni di lavoro analitico "Voi siete i collaboratori di Dio: Dio ha bisogno di voi, da solo non può farcela": <

E’ un messaggio che ci richiama ad una enorme responsabilità: il massimo livello di vita esiste in quanto qualcuno lo vive, lo rende reale.
Tra i mistici che mi sono venuti incontro in questa riflessione e che ho sentito particolarmente vicini a questa concezione della relatività di Dio, cito Maestro Eckhart, un monaco predicatore del 1300, e Simone Weil, una filosofa a noi contemporanea. Di entrambi riporterò alcuni passi particolarmente evocativi.
In entrambi è particolarmente evidente quel passaggio per cui, proprio quando ci si sprofonda nell’interiorità più individuale, avviene quello sfondamento dell’Io che ci porta oltre la realizzazione stessa della mera individualità, oltre il punto in cui è coronato il processo di individuazione personale.
Un tema molto caro ad Maestro Eckhart è quello della nascita di Dio nell’anima: "(...) L’uomo è veramente Dio e Dio veramente uomo. Ma quando Dio non è posseduto così nell’intimo, ma si deve cercarlo dall’esterno, in questa o quella cosa, e cercarlo in maniere diseguali attraverso opere, persone o luoghi, allora non si possiede Dio." Da qui il turbamento dell’uomo che continua a cercare Dio fuori di sè, negli oggetti esterni, siano essi anche culti o ideali condivisi: lo portano sempre ad un Dio che sta fuori, un Dio che è altro da sè, un Dio che lo torna a far schiavo, come gli altri oggetti già incontrati.
E lo stesso concetto è espresso da Simone Weil con la sua caratteristica radicalità: "Chi non ha rinunciato a tutto, senza eccezione alcuna, nel momento in cui pensa a Dio dà il nome di Dio ad uno dei suoi idoli." O ancora: "Non tocca all’uomo cercare Dio e credere in lui: egli deve semplicemente rifiutarsi di amare quelle cose che non sono Dio. Un tale rifiuto non rappresenta alcuna fede. Si basa semplicemente sulla constatazione di un fatto evidente: che tutti i beni della terra, passati presenti e futuri, reali o immaginari, sono finiti e limitati, radicalmente incapaci di soddisfare quel desiderio di un bene infinito e perfetto che brucia continuamente in noi." Anche Maestro Eckhart insiste molto sul distacco, quale passaggio indispensabile affinchè avvenga questo incontro, questo ricongiungimento con Dio.
Ciò che l’uomo si trova a fare quando imbocca una strada di questo tipo, è proprio un’operazione di disinvestimento dal mondo visto come "altro", il che - in termini psicologici non corrisponde necessariamente alla soluzione concretistica di abbandonare ogni attività o relazione sociale per rinchiudersi in una cella monastica, bensì significa operare quel distacco dagli oggetti particolari, nella loro frammentazione e molteplicità, distacco tanto più doloroso quanto più si perviene alla consapevolezza che l’Io stesso, con cui ci si è fin qui identificati, non è che uno di questi "oggetti".
Scrive Maestro Eckhart a proposito del distacco dall’Io psicologico: "Bisogna innanzi tutto abbandonare se stessi: così si abbandonano tutte le cose, in verità se un uomo abbandonasse un regno o il mondo intero e mantenesse se stesso, non avrebbe abbandonato proprio niente. Se invece un uomo ha abbandonato se stesso, anche se mantiene ricchezze, onori e qualsiasi altra cosa, ha già abbandonato tutto." E subito dopo, a scanso di equivoci, aggiunge: "Devi sapere che non v’è uomo tanto distaccato in questa vita che non possa più ancora rinunciare a se stesso." Questo distacco passa attraverso il fare del non fare: per cui è necessario sospendere l’azione, sospendere ogni giudizio teso a catalogare secondo il già conosciuto, accettare il vuoto, la mancanza, resistendo alla tentazione di riempire immediatamente con il già noto, con ciò che rassicura. Si tratta di reggere la tensione, senza cadere nei tranelli che l’Io ci tende.
A questo proposito Simone Weil afferma: "E’ necessario senza dubbio uno sforzo, uno sforzo durissimo, che però non riguarda l’azione concreta. Esso consiste nell’impegno di fissare lo sguardo su Dio, di riporvelo allorchè si è distolto da lui, di renderlo ancora più attento in certi momenti, con tutta l’intensità di cui si è capaci. E questo sforzo è molto più duro perchè la parte più mediocre di noi stessi, (...) che è ciò che chiamiamo il nostro "Io", si sente condannata a morte da questo atto di concentrazione su Dio, non vuole morire, si ribella e inventa ogni genere di menzogne per distogliere lo sguardo." Giungere alla contemplazione non è dunque qualcosa di immediato nè di magico: richiede un lungo lavoro di disciplina fintantochè l’Io, che è poi colui che si crede il detentore degli oggetti d’amore esterni, si ribella. Tuttavia questa lotta è necessaria affinchè si arrivi a sperimentare la nascita di Dio nell’anima, come dice Maestro Eckhart, anzichè accontentarsi di riporre l’anima in un Dio che resta però ancora fuori.
"E’ una condizione più alta che Dio sia nell’anima che non che essa sia in Dio; per il fatto di essere in Dio essa non è ancora beata, mentre lo è per il fatto che Dio è in essa. Fidatevi di ciò: Dio è egli stesso beato nell’anima! " E allora ci vengono incontro i sogni in cui le chiese crollano, o da esse vengono portati via gli altari: l’uomo non può più trovare Dio - vale a dire trovare il senso più elevato al proprio esserci - in alcun luogo che non sia la propria interiorità, pena il tornare ad alienarsi da sè.
Deve tornare là, nella propria anima, nel contatto con il proprio inconscio, con ciò che per definizione ancora non conosce, allentando le difese che vorrebbero aggrapparsi al già conosciuto. Ciò provoca un radicale rovesciamento di atteggiamento, come un sogno con chiarezza indica:

> La sognatrice si sottoponeva ad un trattamento: un monaco orientale smuoveva prima nel suo corpo i blocchi di energia, e poi, facendole tenere la punta dell’indice destro, la rovesciava come un calzino.<

Ciò comporta lo sfondamento dell’Io come identità particolare che si definisce per distinzione da tutto il resto, il non-Io, e l’accedere alla dimensione universale, in cui si torna ad essere tutt’uno con l’Uno.
Scrive ancora Maestro Eckhart: "Stare all’esterno come all’interno, abbracciare ed essere abbracciati, contemplare ed essere la stessa cosa contemplata, tenere ed essere tenuti - questo è il fine dove lo spirito dimora in pace, unito alla cara eternità".
Quando Dio nasce nell’anima è avvenuto il sacrificio del mondo e il sacrificio dell’Io, di cui pure molti sogni parlano, in cui l’uomo, come simbolo dell’Io, chiede alla donna di essere ucciso.
Ora può risultare maggiormente comprensibile l’importanza che noi attribuiamo, nel corso del lavoro analitico, alla contemplazione, intesa come allenamento alla percezione del proprio Sè interiore, che ci porta a superare gradualmente l’eccessiva identificazione con il nostro Io cosciente, e, di conseguenza, l’eccessivo investimento sugli oggetti esterni.
Per realizzare questo incontro col proprio Sè, nel calarsi nella propria interiorità, è necessario al contempo imparare ad uscire da se stessi: giungere a liberarsi di sè.
Scrive ancora Simone Weil: "La grande difficoltà nella ricerca di Dio è che noi lo portiamo nel centro di noi stessi. Come andare verso se stessi? Ogni passo che faccio mi porta fuori di me. Per questo non può cercare Dio. L’unico procedimento è uscire da sè e contemplarsi dal di fuori. Allora, dal di fuori, si vede Dio al centro di sè così come è. Uscire da sè equivale alla totale rinuncia ad essere qualcuno, all’assenso completo ad essere solo qualcosa." Questa è la rinuncia dell’Io.
Quando sia attivo questo tipo di realtà interiore, questo atteggiamento "religioso" all’interno del soggetto, allora anche il gesto, l’azione esteriore risulterà trasformata e trasformativa, alleggerita da quel sovra-investimento che l’inconscio, quando è trascurato induce, a scapito della sanità del soggetto stesso.

Genova 28 Ottobre 1994

Agnese Galotti


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