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N° 02 Agnese Galotti

Agnese Galotti
 CONFERENZE 

PENSIERO E PRESENZA


1) Presenza = essenza del lavoro analitico

L'ipotesi di fondo è che l'essenza ultima del lavoro che qui a GEA svolgiamo insieme, consista nell'amplificare l'esperienza della Presenza, concetto che cercheremo qui stasera di focalizzare in modo un poco più specifico.
Il lavoro analitico, così come qui lo intendiamo e lo pratichiamo, è sempre una forma di dialogo tra due soggetti, che possono essere due individui (la cosiddetta ‘analisi individuale’) o ciascun individuo e il gruppo (la cosiddetta ‘analisi di gruppo’).
E' un lavoro che forse ormai erroneamente chiamiamo ‘psicoanalisi’, ben sapendo che, oltre ad occuparci della dimensione più propriamente ‘psichica’ (ovvero particolare, relativa all'Io) ci si occupa della dimensione ‘spirituale’ (ovvero del rapporto particolare - universale, dimensione relativa al Sé); e ben sapendo che, ad un atteggiamento più propriamente di analisi (relativo a contenuti mentali specifici) si affianca un tentativo di ‘sintesi’ (di ricerca della dinamica essenziale).
Tutto il nostro lavoro, dicevo, ruota attorno a questo concetto, che sta ad indicare una ‘precisa esperienza’ che, in quanto tale, è ben difficile da descrivere e/o definire.
Parliamo dunque di esperienza come momento nodale ed importantissimo del processo di conoscenza, relativo quindi al pensiero, ed al suo progressivo svolgersi in noi.

Direttamente collegata a questa esperienza della Presenza che, come vedremo, comprende differenti livelli di coscienza e di consapevolezza, quindi differenti fasi evolutive del pensiero, ipotizziamo si apra la possibilità di sperimentare qualcosa che chiamiamo ‘gioia’ intesa non come opposto a tristezza o altro, bensì come un sentimento di pienezza che ha a che fare con la percezione della totalità, cui il concetto di Presenza, come vedremo, necessariamente rimanda.

2) Presenza - assenza; Presenza - mancanza

Il termine Presenza viene dal latino ‘Praesentia’, sostantivo di ‘prae esse’ che significa "essere innanzi"; quindi rimanda ad un rapporto tra due entità che si trovano l'una di fronte all'altra.
Presenza ha per contrario assenza che, in termini percettivi, può meglio essere concepito come ‘mancanza’.
In effetti Presenza ed Assenza, Essere e Nulla, così come tutti le grandi coppie di opposti, sono termini solo relativamente contrari: in un'ottica dialettica si rivelano essere consustanziali, ovvero rimandano ad una medesima realtà.
Se leggiamo Eckhart possiamo trovare come la concezione di Dio quale Essere assoluto, privo di qualsiasi determinazione, coincida con quella di Nulla, di vuoto, di Assenza di ogni caratteristica o qualità particolare.
Chi sta svolgendo un lavoro analitico sa perfettamente quanto sia importante imparare ad accogliere la mancanza, anziché demonizzarla, in quanto, ad un occhio attento, essa si rivela essere il motore principale del percorso individuativo stesso: sentire la mancanza induce a cercare la presenza.
Questo per dire come la mancanza, o assenza che dir si voglia, sia esperienza fondamentale, dialetticamente connessa a quella di presenza, nella misura in cui c'è un soggetto che la percepisce e che può farsi consapevole di tale percezione.
Se non c'è la disponibilità a sperimentare anche la mancanza è inutile cercare l'esperienza della presenza.
L'etimologia della parola presenza, l'abbiamo detto, rimanda alla visibilità di ciò che è presente, visibilità che in determinate contingenze può venire a mancare. Ovvero noi possiamo registrare la mancanza di qualcuno o qualche cosa di cui abbiamo precedentemente sperimentato la presenza, nel momento in cui si fa assente alla nostra percezione. Quindi ciò di cui sentiamo la mancanza ci appartiene nel senso che l'abbiamo, a qualche livello, conosciuto, altrimenti non ne potremmo sentire la mancanza.
Non solo: ma spesso è proprio questo ‘sentire la mancanza’ che facilita la consapevolezza di quel qualcosa: viceversa ciò che è troppo frequente alla nostra vista rischia di diventare scontato e quindi non più cosciente.
In termini prettamente psicologici o psicoanalitici è interessante verificare come la funzione stessa del pensiero, ovvero la funzione simbolica - la cui formazione è strettamente correlata alla relazione primaria - evolva a partire dall'esperienza frustrante della ‘mancanza’.
Nella relazione primaria tra bimbo e madre - madre che inizialmente incarna per il bambino l'altro da sé, il mondo nella sua totalità - è a partire dall'esperienza della frustrazione, dal momento in cui il bambino sperimenta la mancanza della madre, che prende avvio la funzione simbolica e quindi ha inizio la funzione pensante.
In mancanza di lei il bambino è stimolato a formarsene il concetto, cosa che gli permette di tollerarne la distanza concreta, e di uscire da una bisognosità concretistica.
Il pensiero quindi comporta di fare l'esperienza della mancanza e non di evitarla.
Allora l'esperienza della mancanza, possiamo dire, se accolta, è già l'altra faccia della presenza, in quanto genera l'idea di ciò di cui si percepisce la mancanza, ciò che è assente: evocarne e desiderarne la presenza è tutt'uno col dargli vita, generandolo nella mente.

3) Presenza come manifestazione dell'essere

Nella garzantina di Psicologia curata da Galimberti alla voce "Presenza" troviamo:
"Presenza - (ingl. presence; ted. Anwesenheit; fr. présence) automanifestarsi di tutto ciò che c'è per il solo fatto di esserci.
La presenza è ‘già lì’ offerta alla nostra esperienza prima di ogni giudizio e di ogni riflessione comune o scientifica che la interpreta in un certo ordine, adottando determinate categorie. In questo senso la presenza è un'unità pre-categoriale che fa da sfondo a ogni successiva costruzione categoriale.
Per cogliere la presenza E. Husserl dice che occorre un'epochè, ossia una sospensione del giudizio con cui siamo soliti considerare ciò che abbiamo davanti. Mettendo tra parentesi ogni impianto categoriale giungiamo all'esperienza originaria della presenza.
M. Heidegger distingue tra la presenza delle cose (Vorhandenheit) che sono lì semplicemente davanti (vor) e perciò alla mano (zu Hand) e quindi utilizzabili (Zuhandenheit), e la presenza dell'uomo (Dasein) che non è al mondo come lo sono le cose, ma apre un mondo percorso dalla sua intenzionalità: il Dasein ‘non ha e non può avere il modo di essere proprio di ciò che è semplicemente presente dentro il mondo’.
Nel ci dell'Esser-ci, nel da del Da-sein viene in luce quel senso per cui l'uomo è il luogo in cui c'è (ist da) la manifestazione dell'Essere, in cui si esprime quell'originario rapportarsi dell'essere all'uomo in cui l'essere si fa presente (Anwesen) e l'uomo vi si rivolge (Zu-wendung).

Una citazione di Eckhart rende forse più poeticamente questo medesimo concetto:
"L'occhio nel quale io vedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede; l'occhio mio e l'occhio di Dio non sono che un solo occhio, una sola visione, una sola conoscenza, un solo amore."

Queste considerazioni mettono in evidenza due aspetti particolari del concetto di presenza focalizzandone l'attinenza profonda con il lavoro analitico, in quanto hanno a che fare con la conoscenza e con la relazione:
Il che ci costringe contemporaneamente ad un'osservazione estremamente concreta e pragmatica - legata al sentire, alla percezione nel qui ed ora - senza però perdere di vista il contesto in cui l'osservazione stessa ci pone, il ‘manifestarsi dell'essere nell'uomo’, che è quanto di più vasto ed onnicomprensivo noi si riesca a concepire.
Il contesto riguarda l'unione d'opposti per eccellenza: quella tra sé e l'altro da sé, tra uomo e dio, tra divenire ed essere, tra finito ed infinito, tra relativo ed assoluto.
Contesto per eccellenza che riguarda sia la filosofia che la religione.
Da qui l'evidente attinenza che il nostro lavoro ha, nella misura in cui ci occupiamo di presenza, con l'esperienza mistica, intesa non come ricerca dell'eccezionale, della sperimentazione di estasi, uscite dal corpo, ecc.… che privilegiano il piano emotivo-sentimentale, bensì come costante disposizione a percepire il contatto diretto con Dio, ovvero con l'essenza ultima, la realtà universalmente intesa, l'assoluto, su un piano più propriamente speculativo, o di pensiero.
L'esperienza mistica, intesa nel suo senso forte, non si ferma alla sfera del sentimento (che privilegia la dimensione psichica), ma si apre all'elaborazione del sentire sul piano del pensiero, (che apre alla dimensione spirituale).
Essa si colloca pertanto non nel particolare ma nell'universale, o quanto meno nel rapporto dialettico tra i due.
"Il suo obiettivo - come scrive M. Vannini in Il volto del dio nascosto - non è l'eccezionalità, ma la costante, serena esperienza dello spirito sempre presente, in quel continuo miracolo che è la vita quotidiana e che appare come tale appena l'io psicologico cede il campo allo spirito."

4) Presenza tra tempo e non tempo


Presenza, in effetti, rimanda ad una dimensione temporale che riguarda il qui ed ora, il momento presente, appunto, la percezione del quale ci permette di prendere distanza da proiezioni mentali nel passato o nel futuro, di liberarci da causalismi e finalismi, per farci, come si dice, presenti a noi stessi.
Questo è un passaggio importante che permette lo sfondamento dell'Io nel Sé, nella parte più profonda di noi: a partire dalla dimensione temporale in cui siamo calati, la concentrazione nel qui ed ora quale unica realtà veramente esistente, permette di sprofondare nel non tempo, nell'eternità, in quello che Eckhart chiama ‘momento presente assoluto’.
Presenza, quindi, come ponte, elemento di unione ovvero come ‘soglia’ tra il tempo presente, l'attimo fuggente, ed il tempo infinito, ovvero il non-tempo.

Simone Weil, nel suo IV quaderno, così si esprime:
"Dio ci ha abbandonati nel tempo.
Dio e l'umanità sono come un amante e una amante che si sono sbagliati circa il luogo dell'appuntamento. Ciascuno è lì prima dell'ora, ma sono in due posti diversi, e aspettano, aspettano, aspettano. Lui è in piedi, immobile, inchiodato al posto per la perennità dei tempi. Lei è distratta e impaziente.
Sventurata se ne ha abbastanza e se ne va! Perché i due punti in cui si trovano sono lo stesso punto nella quarta dimensione…
(…) E' nel tempo che noi abbiamo il nostro io. L'accettazione del tempo e di tutto ciò che esso può portare - senza alcuna eccezione - (amor fati) - è l'unica disposizione dell'anima che sia incondizionata rispetto al tempo. Essa racchiude l'infinito. Qualsiasi cosa succeda…
Dio ha dato alle sue creature finite questo potere di trasportare se stesse nell'infinito."

E' così che si accede, evidentemente, alla dimensione dello spirito.

Ma a questa esperienza ‘dello spirito nello spirito’ bisogna poterci arrivare, e noi sappiamo bene quanto sia fondamentale percorrere tutta la strada, senza saltare alcun passaggio, compiere prima un'umile e costante lavoro di sgrossamento e raffinazione dello ‘psichico’, imparare profondamente l'arte del ‘distacco’, soprattutto dall'Io psicologico e dalle sue determinazioni, onde poter davvero accedere alla dimensione spirituale, pena il cadere nel grande equivoco di ‘parlare su’ qualcosa anziché viverlo davvero, il che genera quanto di più aberrante noi si possa immaginare.
Intanto bisogna che l'Io si sia formato e abbia imparato a distinguersi dal non-Io, ovvero l'individuo in questione deve poter essere uscito dalla fusionalità ed indistinzione propria dei rapporti simbiotici ed essersi riconosciuto come soggetto in relazione ad altri soggetti.
Questo per distinguere la con-fusione tra due soggetti che non sanno di sé come tali, dalla com-unione tra due soggetti che invece sanno di sé e dell'altro come di un se stesso.
Il concetto di presenza, tra l'altro, è strettamente connesso al corpo, alla nostra percezione corporea, che ci rimanda alla percezione della nostra individualità specifica in quanto è la forma attraverso cui la nostra esistenza si fa manifesta, a noi stessi ed al mondo.
Anche qui è necessario uscire da equivoche posizioni dicotomiche che tendono a scindere tra corpo e anima, materia e spirito,… per disporci invece a cogliere l'unicità dell'esserci nella sua forma incarnata (la consustanzialità del padre e del figlio, come viene detta in termini teologici).

E' ancora Galimberti a sottolineare come
"il corpo non è al mondo opacamente come lo sono le cose ignare di sé e di ciò che le circonda, ma come quell'apertura originaria in cui solamente sono possibili sensi e significati. Chiamiamo questa apertura originaria che precede ogni distinzione tra soggetto e oggetto, tra interiorità ed esteriorità, tra conscio e inconscio: presenza, intendendo con questo termine quell'assoluto che non ha nulla ‘dietro’ di sé, perché ciò che è e ciò che si manifesta coincidono.
Questa presenza, questo originario apparire è ciò che bisogna descrivere e interrogare, perché la realtà umana, a differenza di ogni altra, realizza quell'assoluta coincidenza tra chi indaga e chi è indagato che non consente di distanziare l'oggetto, di porselo di fronte come un fatto, per la semplice ragione che noi stessi, e non altro, siamo la realtà umana, e comprendere questa realtà non è altro che il nostro modo di esistere."

Possiamo individuare i progressivi livelli di autocoscienza attraverso cui il soggetto, prendendo distanza da sé, arriva a ‘vedersi’, ovvero a farsi presente a se stesso.
Si tratta di un processo che prevede ogni volta un distacco da sé, da ciò che di sé si conosce o si crede di conoscere, da ciò con cui si tende ad identificare se stessi, per compiere un salto riflessivo attraverso cui arrivare di volta in volta a vedere se stessi in una sempre crescente interezza.

- Possiamo individuare come livello primitivo quello in cui non c'è coscienza di sé e quindi manca totalmente il concetto di ‘essere presenti a se stessi’; ciò corrisponde a situazioni - che possiamo definire fortemente patologiche - in cui siamo totalmente aderenti alle sensazioni e ai sentimenti, al punto che, quando ne usciamo, non siamo neppure in grado di ricordare; quindi manca qualsiasi dato da cui partire per sviluppare una seppur minima consapevolezza: si tratta di un livello di incoscienza totale.

- Un livello successivo lo possiamo individuare in quella condizione, per la verità piuttosto frequente, in cui siamo per lo più dimentichi di noi stessi come presenza, e tendiamo a coincidere con il nostro sentire, con il nostro patire e con gli oggetti delle sensazioni e delle emozioni che proviamo, aderendovi completamente fino ad identificarci con essi, salvo poi recuperarne memoria e coscienza in un secondo momento, se siamo almeno un poco inclini all'attività riflessiva.
Da questo primo livello di riflessione su di sé si impara gradualmente a distinguersi dalla vicenda (dal sintomo che ci fa patire), a ricondurre a sé gli eventi, per cogliersi come soggetto che vive le vicende prendendo distanza dalle stesse. Ciò comporta l'aver acquisito l'abilità di porsi al di fuori di sé per vedersi: farsi presente - appunto - al cospetto di sé.

Questo atteggiamento permette a ciascuno di cominciare a cogliere il ‘corso degli eventi’ di cui è - più che vittima o artefice, come l'io vorrebbe pensare - testimone attivo, ovvero soggetto, che inizia a vedersi, il che permette di cogliere la propria storia come un continuum di eventi di cui ciascun soggetto è l'elemento costante in quanto presente nel tempo.
Questo è il primo livello di presenza a se stessi, che può essere raggiunto a partire dal farsi consapevoli della propria esistenza fisica, attraverso la registrazione e quindi il consapevolizzarsi progressivo di sensazioni, percezioni, emozioni, sentimenti, pensieri, ecc.
Il recupero di una percezione unitaria di sé è esperienza profondamente risanante in quanto permette di superare la frammentazione psicotizzante (che prevale fino a che si tende ad aderire fusionalmente agli eventi) e di ordinare le percezioni in un continuum che è la nostra stessa vita.

- Possiamo individuare un secondo livello di presenza a sé stessi quando, nel tentativo di svuotare la mente da ogni contenuto specifico, nel ripiegarsi in assoluto silenzio in se stessi, si arriva a cogliere il proprio esserci al di là di ogni evento particolare, al di là della propria stessa storia personale.
Cogliere il proprio ‘esserci’ nella sua essenza, cogliere l'esperienza di esserci come pura presenza.
Inizialmente ciò può accadere grazie ad un particolare raccoglimento meditativo, in cui ci si fa disponibili alla ricerca del ‘vuoto mentale’, ovvero dello svuotamento da qualsiasi contenuto specifico; tuttavia, e questo è ancora più affascinante, è un tipo di percezione che può manifestarsi senza preparazione né preavviso e dilagare sempre più nella quotidianità, restituendo ad ogni gesto, ogni percezione, ogni parola, ogni incontro, l'unicità e l'intensità che soltanto la presenza sa dare.
E' la sperimentazione di una libertà assolutamente nuova, che ha a che fare con un processo di disidentificazione progressiva da qualsiasi immagine di sé già data, da qualsiasi contenuto specifico, una libertà associata al ‘distacco’ da tutto ciò che è determinato, primo tra tutti l'io psicologico.
E' il momento di estremo sollievo in cui ‘ci liberiamo di noi stessi’.
A partire da questo vuoto, da questo distacco da ogni ‘qualcosa’, si apre la possibilità di percepire il ‘tutto’: ovvero si fa disponibile quella percezione di totalità estremamente risanante, che ci restituisce la piccolezza e la relatività di ogni possesso parziale, di ogni contenuto particolare.
Da qui può affacciarsi quel senso di gioia, di pienezza, di libertà da qualsiasi attaccamento specifico: quel vuoto-pieno che ci fa sentire in sintonia con il tutto e che ci permette di affacciarci ad un'intensità altrimenti impossibile da reggere.
E' l'unione di opposti che si manifestano essere uno: un silenzio che è parola vera, un vuoto che è contemporaneamente pienezza, un attimo che è l'infinito.
Di ciò hanno testimoniato in modi differenti molti iniziati, orientali ed occidentali, in quanto si tratta di un'esperienza che, una volta realizzata, diventa irrinunciabile, senza la quale la vita resta irrimediabilmente mancante.
Sono quei momenti in cui una gioia profonda ci assale inaspettatamente, senza un perché, in cui ci è restituita la sensazione di un ‘ritorno a casa’ che non ha a che fare con alcun fatto contingente, con alcuna realizzazione personale.
Infatti, se da un lato è fondamentale il lavoro di consapevolezza che ci dispone alla percezione della presenza, tale esperienza resta caratterizzata da un'autonomia e gratuità che non permette alcun controllo né alcuna appropriazione da parte dell'io.
Non c'è relazione di causa-effetto, non c'è garanzia alcuna di risultati ‘meritati’: questa gioia, questa sensazione di libertà che diventa necessità, non può essere indotta, nessuno se la può creare: è qualcosa che accade, e di cui possiamo godere nella misura in cui siamo disponibili, presenti ad accoglierla.

La gioia associata alla presenza è spesso sentita come commozione intensa, come sentirsi in intimissimo rapporto con l'esistente, con la vita così come è.
Spesso si manifesta attraverso la percezione di "Qualcuno in noi", amante/amato, da cui ci sentiamo accompagnati in ogni momento, per cui cade il concetto stesso di solitudine, accada quel che accada.

Si tratta comunque di una sensazione di Amore che non può esaurirsi in alcuna relazione personale specifica, che non resta attaccata a sentimentalismi o personalismi né a bisogni particolari e che chiede l'universo intero come interlocutore.
E' la scoperta di un rapporto profondo con l'essere, (con la Presenza, appunto) che non ci abbandona mai essendo consustanziale al nostro stesso esserci quali soggetti pensanti.
Spesso possiamo individuare in questo dialogo interiore, ancora una sfumatura ‘personalistica’, ed in quanto tale superabile, laddove possiamo cogliere come quel ‘Tu’ interiore rimandi ancora ad un ‘Io’ che ne fa esperienza.
E questo è il limite dell'esperienza personale, ovvero del fatto che l'esperienza di ciascuno, anche la più sublime, rischia di restare nel chiuso di quel soggetto particolare che ne fa esperienza, se non si apre la possibilità non solo di condivisione, nel senso di reciproca comunicazione di ciò che si è sperimentato, ma addirittura di co-sperimentazione.

- Credo si possa accennare ad un ulteriore livello di presenza sovra-personale, in cui si verifica la caduta di ogni determinazione, di ogni relatività, di ogni riferimento a sé come dato personale, di ogni conoscenza già data: una sorta di spersonalizzazione, tanto elevata quanto inquietante, che permette di cogliere la pura presenzialità sgombra ormai da ogni determinazione.

E qui si apre l'enorme capitolo circa la direzione verso cui è orientata l'esperienza del gruppo GEA.
In gruppo noi ci apriamo alla possibilità non solo di condividere ma di sperimentare insieme, contemporaneamente, quella percezione di presenza, in cui ciascuno si percepisce nel Sé e si rivolge all'altro come al suo stesso Sé.
Questo apre la strada alla possibilità di un'ulteriore liberazione dal riferimento personale.
Nella presenza, così percepita insieme, va scemando il riferimento a sé come soggetto particolare ed è privilegiata la percezione della presenza corale che l'energia del gruppo stesso, quale nuovo soggetto, sviluppa.

E' la sperimentazione di una presenza che non è più relativa a me bensì a noi, una presenza che non è più personale ma immediatamente corale e quindi sovrapersonale; ciò segna il passaggio da un riferimento a sé come individuo a sé come gruppo, quale nuovo soggetto che va facendosi presente a se stesso.
E' importante sottolineare come questo riferimento al gruppo come sé corale non abbia più nulla a che fare con una dinamica di fusione tra individui, la con-fusione tipica del branco, in cui i partecipanti si fondono per mancanza di individuazione di sé come soggetti, bensì realizza una nuova unione la com-unione grazie al passaggio, avvenuto in ciascuno, dalla dimensione prevalentemente egoica a quella del sé.
Si tratta di un'intuizione che si concretizza, di tanto in tanto in gruppo, quando si fa percepibile un unico discorso attraverso le varie voci, un unico sentire attraverso i vari corpi, sfuma la percezione individuale in favore di quella sovraindividuale.
In un sogno veniva detto in questi termini:
"Il sognatore, che in quel periodo rifletteva sulla irriducibile solitudine che caratterizza l'esperienza umana, camminava lungo la strada, credendo di essere da solo, finché gli appariva alle spalle una compagna di gruppo che gli diceva: ‘Credevi di essere solo’ che suonava anche come: ‘Credevi di essere il solo’."

Ma il lavoro non finisce qua: il gruppo, quale nuovo soggetto che va facendosi consapevole di sé, corre tutti i rischi di appropriazione egoica che l'individuo prima di lui ha incontrato. Da qui la necessità di una sorta di ampliamento del lavoro a catena (l'Intergruppo) che tende ad impedire ogni volta la chiusura in un qualche personalismo, fosse pure di gruppo.

Questo livello di percezione della presenza non più personale bensì corale è il punto più elevato di riflessione dell'essere, il luogo ultimo dove la conoscenza dell'essere si fa in noi presente come ‘presenza alla presenza’.
In quei rarissimi momenti in cui questo evento ci raggiunge, non siamo più noi a farne l'esperienza, ma è la presenza che si fa presente in noi.

5) Presenza = ovvero farsi percepibile, di ciò che è: aspetto percettivo della consapevolezza fin lì acquisita (lato vivo del pensiero)

La mancanza di presenza ci fa vivere lontani dal qui ed ora, e quindi ci rende succubi di immagini mentali non attuali.
Esiste in noi un'attività mentale che crea congetture, simulazioni mentali più o meno distanti dalla realtà che possono essere relative al passato (‘se fosse andata così o cosà,’) o al futuro (‘se accadrà questo o quello’).
La capacità di simulare mentalmente è una funzione estremamente importante in quanto è legata alla capacità di mentire, ovvero di immaginare alternative rispetto a ciò che è, ed è quindi alla base della libertà dell'uomo in quanto essere cosciente; tuttavia questa attività della mente (la ‘mente che mente’) può talvolta sostituirsi in maniera confusiva e dannosa alla nostra reale percezione di ciò che è, nel qui ed ora.
Pensiamo ai comportamenti che spesso abbiamo e che risultano ormai disfunzionali perché non più attuali, certi meccanismi di difesa tipo la ‘paura di avere paura’ oppure certe ostinate aspettative che possono distruggerci la vita.

Rispetto all'ancoraggio al qui ed ora come strumento fondamentale della presenza in noi, possiamo distinguere tre passaggi del nostro esserci: Questa dialettica tra il sapere ed il tornare a sentire ciò che sappiamo apre una riflessione che ci riguarda da vicino.
In termini generali noi sappiamo che ogni conoscenza che sia tale non può che originare dall'esperienza (la provocazione del nostro nome: psicologia analitica e ‘filosofia sperimentale’) e che la conoscenza che man mano accumuliamo è una progressiva distillazione a partire dal sentire primario, dal nostro continuo rapportarci con la vita.
Tuttavia ciò che viene in primo luogo sentito (magari a livello di intuizione oltre che di percezione sensoriale) e via via trasformato in coscienza e crescente consapevolezza, ad un certo punto diventa ‘conoscenza acquisita’, bagaglio di conoscenza: sono le convinzioni su cui si può finire per riposare pigramente, col rischio di invecchiare con loro.
Corrisponde al rischio di ogni realtà, che vada istituzionalizzandosi ovvero progressivamente organizzandosi, di irrigidirsi in un ‘corpus’ non più discutibile.
Tale conoscenza chiede allora, per evitare l'irrigidimento, di essere nuovamente vivificata dal nostro sentire: il pensiero in noi chiede un rinnovato incontro affinché si possa tornare a sentire ciò che sappiamo o crediamo di sapere.
Sintonizzarsi con la Presenza corrisponde alla costante necessità di attualizzare il bagaglio di conoscenza attraverso il ‘tornare a sentire’, un modo di riverificare, nel qui ed ora, nel rispetto quindi dei cambiamenti che possono essere avvenuti nel tempo, ciò in cui ‘crediamo’, ciò di cui siamo convinti.
Questo tipo di presenza come attualizzazione del pensiero è ciò che ci costringe ad una parola ‘sentita’ ed in quanto tale ‘vera’.
Presenza è quindi ciò che distingue il ‘credere’ dallo ‘sperimentare’, in quanto prevede il ritorno alla concretezza della percezione tangibile, là dove torno a verificare ciò che dico passandolo al vaglio del sentire attuale. E questo è, tra l'altro, ciò che restituisce tutta la potenza del Verbo al mio dire.
La presenza, in questo senso, costringe a non dare nulla per scontato né per acquisito una volta per tutte: torna a vivificare il pensiero e quindi la parola in ciascun momento ed impedisce fanatismo, dogmatismo ed irrigidimento.

Se pensiamo all'analisi, per esempio, pensiamo ad un rapporto che dura nel tempo, dove ogni dato per scontato, ogni immagine fissata dell'altro, chiede costantemente di essere rimessa in discussione, ad ogni incontro, in modo che torni ad emergere la presenza, nel qui ed ora, di ciascuno: questo rende vivo e stimolante l'incontro.
L’incontro è il momento verità in cui mi trovo a distinguere tra possibili proiezioni o fissazioni e realtà concreta, così come qui ed ora si fa percepibile, di ciò che è: dell’altro, di me e del rapporto.
Ecco perché non può esserci dogmatismo finché ci si riferisce alla presenza: perché essa prevede il ritorno al qui ed ora, alla percezione reale, senza poter assolutizzare nulla.

Rispetto alla presenza non si può mentalizzare più di tanto e soprattutto non si può mentire.

Questo comporta un ridimensionamento anche dell'esperienza del dolore, nello scoprire una gioia possibile che va al di là delle contingenze della vita, una gioia che è strettamente connessa alla percezione della presenza.

La possibilità di gioire ovvero di ‘bene-dire’ la vita non dipende dalle contingenze, dagli eventi cosiddetti ‘esterni’ bensì dall’assunzione di un preciso atteggiamento interiore che chiamiamo appunto ‘Affidamento alla Presenza’.
Affidarsi alla presenza, ovvero ad una percezione di sé e della vita sempre più essenziale, sempre più in sintonia con l’Uno che è, ci porta a percepire la vita nel migliore degli atteggiamenti possibili, fino a cogliere come tutto è bene in quanto è, e come nulla sia da escludere.
Tutto ciò che è può essere ‘compreso’, non necessariamente ‘capito’, ma accolto profondamente in quanto esistente.
Questo progressivo espandersi della comprensione che induce serenità verso la vita così come è, si è detta in gruppo con un'immagine: una serie di cerchi concentrici, in cui di volta in volta quello più ampio comprende tutti gli altri; a seconda del cerchio entro il quale ci si trova posizionati si può comprendere in sé sempre più mondo, ovvero: ogni visione più ampia porta in sé tutte quelle più piccole.
Non si tratta di difendersi né di negare l'intensità di alcuna emozione, piacevole o spiacevole che sia: si tratta di non attaccarcisi, in modo da poter ogni volta recuperare la libertà di spostarsi nel cerchio più ampio, quello che la comprende e permette di reggerne l'intensità senza restarne schiacciati.
La gioia, associata alla presenza, è allora il cerchio più ampio del sentire: una sorta di ‘pacata intensità’ che può comprendere tutto perché porta in sé contemporaneamente anche il distacco da tutto, il che amplifica la capacità di reggere l'intensità del sentire, che può perdurare nel tempo, che ci accompagna nella misura in cui vi restiamo sintonizzati.
Può attivarsi attraverso una grande emozione ma non è legata alla tonalità emotiva di quella emozione: è semmai ciò che segue lo spiazzamento, ciò che resta quando l'esplosione emotiva, come un terremoto, si dilegua.

Concludo con una frase di Mére particolarmente evocativa:

"Una grande gioia di essere ha voluto questo viaggio [la vita], perché essere vuol dire avere la gioia di tutto quanto è. Non ce n'è un'altra.
Ogni dolore è insufficienza d'essere.
Il mondo è nel dolore di non essere ciò che è, gli esseri sono nel dolore di non essere ciò che sono.
Ma vanno verso una gioia grande che è la loro, vanno verso la totalità che essi sono da sempre."

Agnese Galotti


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