Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Giugno 1993 Pag. 12° Agnese Galotti

Agnese Galotti

 MITI E LEGGENDE 

LA RICERCA DI GILGAMESH

E' uno dei poemi più antichi che si conosca. Vi si racconta l'uscita dell'uomo dal mondo primordiale ove naturale violenza, morte e vita erano fuse in un unico sfondo indifferenziato. Si celebra la nascita della coscienza attraverso la consapevolezza della propria morte personale scoperta proiettivamente dall'eroe nella perdita del suo amico fraterno Enkidu. Esso racconta inoltre il disperato tentativo dell'eroe, e quindi dell'uomo, di recuperare l'immortalità ormai perduta, ossia l'innocente incoscienza

Gilgamesh è sovrano della città di Uruk. Uomo fuori dal comune sia per la sua forza colossale, il suo coraggio, che per l'ardore irrefrenabile nel cercare risposte alle questioni che si pone.
All’inizio la sua invincibilità era assoluta, e ciò lo aveva reso tiranno, tanto che i cittadini di Uruk invocarono la dea Madre di creare per lui un degno avversario. Su intervento della dea, dunque, nasce Enkidu, l’uomo primordiale, figlio della stepp a, che viene iniziato all’amore e quindi alla vita sociale dalla prostituta Shamakhat, la quale, con l’invito "lo amerai come te stesso", lo conduce al cospetto di Gilgamesh.
I due si sfidano, e dal violento scontro nasce una incomparabile amicizia. Insieme si misurano con lotte titaniche tali, da indispettire gli stessi dei, che fanno morire Enkidu.
Allora Gilgamesh, attraverso la morte di Enkidu scopre la propria morte e per la prima volta ha paura.
Dunque l’uomo, nel riconoscersi mortale, scopre il proprio "limite", la propria individualità, il proprio "essere umano" e, proprio per questo, inevitabilmente proiettato verso ciò che supera la sua stessa natura. Tuttavia solo questa accettazione piena e consapevole sembra renderlo paradossalmente sovra-umano, e dunque divino.
Inizia così il suo lungo peregrinare ai confini del mondo, là dove vive il suo avo Utanapshtim, colui che sopravvisse al diluvio, perchè gli insegni come raggiungere Enkidu e da lui conoscere le sorti dell’uomo nell’aldilà.
L’esperienza, pur nella varietà delle versioni esistenti, maturerà in Gilgamesh l’inevitabilità della morte, idea a cui egli dovrà adattarsi con nuova consapevolezza di sè.
Nel suo peregrinare ai "confini del mondo" Gilgamesh approderà infatti alla rivelazione della propria natura: neppure lui è destinato a vivere eternamente, nè si mostra in grado di preservare la pianta dell’eterna giovinezza, donatagli dall’avo, dal fulmineo gesto del serpente che gliela carpisce.
Il nodo centrale del travaglio di Gilgamesh è la rivelazione dell’ineluttabile, la presa di coscienza della propria forma effimera, L'altro tema dominante del poema è la "relazione" con l’altro.
I due personaggi si trovavano inizialmente confinati ciascuno in una propria illusoria autosufficienza, Gilgamesh nella sua potenza incontrastata di sovrano, Enkidu nella sua istintualità primordiale. Nessuno dei due manca apparentemente di nulla.
Il loro incontro ha il potere di immettere in ciascuno il seme della "mancanza". Come ciascuno di noi ben sa, è proprio il dolore per la percezione del limite, a fornire all’uomo una energia incontenibile che lo spinge ad evolversi e trasformarsi continuamente, nel tentativo costante di superare se stesso.
La grande amicizia che scaturisce dall’incontro-scontro tra i due, lascia presagire la violenza del dolore che attanaglierà Gilgamesh di fronte alla morte dell’amico, evento che lo costringerà ad interrogarsi sulla propria morte e dunque sul senso stesso della vita.
Enkidu, da parte sua, viene sottratto al suo animalesco "eden" dalla comparsa della donna, la quale, allettandolo con i piaceri del sesso, lo inizia alla "relazione", all’amore, rendendolo consapevole di un nuovo profondo bisogno.
Aprirsi all’altro, alla relazione con l’altro, significa infatti rendersi disponibili ad una nuova percezione anche di sè, significa aprirsi al nuovo, abbandonare un’illusorio eden solitario in cui regna una narcisistica "soddisfazione di sè".
Solo così la relazione con l’altro, (reale o interiore che sia) diventa trasformativa, occasione per rompere il guscio egoico ed aprirsi al mondo ampliandone in sè i confini. Ma perchè tutto ciò avvenga, nello specifico della relazione in cui si è coinvolti, deve trattarsi di "amore".
Lo scontro si trasforma allora in incontro profondo che sottrae ciascuno al proprio isolamento autistico e consente di sperimentare una nuova integrità.
Tuttavia nulla è garantito una volta per sempre: l’altro può sottrarsi in qualunque momento alla relazione, può cambiare, può morire.
Ecco perchè l’incontro profondo, l’intima unione tra anime genera paura: la gioia della nascita porta in sè già il timore della morte, come il sogno premonitore anticipa a Gilgamesh .
Ciascuno di noi conosce quel tarlo che si insinua soprattutto nei momenti di intensa gioia, quando sperimentiamo, magari solo il tempo di un attimo, quel vissuto di integrità che l’avvicinarsi di due anime consente. Parlo del presagio di quell’immenso dolore che la perdita dell’abbraccio già induce, prima ancora che l’abbraccio sia completo.
Gilgamesh prende atto della morte, e da qui prende avvio la sua nuova ricerca.
Gilgamesh è costretto dalla profonda mancanza dell’altro a cercare oltre i confini del già conosciuto, e si avventura per la prima volta in territori che sono di pertinenza del divino.
La sua è la ricerca di una conoscenza che la relazione empirica con l’altro gli ha lasciato intuire.
L'incontro tra i due nel regno dei morti avviene in una forma fin lì sconosciuta ad entrambi: Enkidu si fa portatore di una saggezza che Gilgamesh non può ancora sperimentare, ma che può intuire e verso cui può farsi disponibile.
Gilgamesh esce da questa vicenda profondamente trasformato nella sua più profonda identità: egli ha sperimentato l’amore ed ha conosciuto, attraverso di esso, la morte.
Non sarà mai più come prima.
"Enkidu, amico mio, fratellino mio,
Pantera del deserto,
L'amico che con me uccideva i leoni,
L'amico che con me affrontava le difficoltà,
Il destino l'ha colto;
Sei giorni e sei notti ho pianto su di lui;
Poi ebbi paura della morte
E fuggìì dalla campagna.
L'amico che amavo era diventato come fango,
E a me, succederà come a lui, di coricarmi,
E di non rialzarmi più?
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Dove vai Gilgamesh?
La via che tu cerchi
Non la troverai
Quando i grandi dèi crearono gli uomini,
Destinarono a essi la morte
E riservarono a se stessi la vita eterna".

Agnese Galotti


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