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Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Marzo 1995 Pag. 13° Agnese Galotti

Agnese Galotti

 MITI E LEGGENDE 

IL MITO DI SISIFO

Sisifo, figlio di Eolo e fondatore della città di Corinto, fu secondo alcuni il più saggio e prudente dei mortali, secondo altri particolarmente incline al mestiere di brigante. Ciò su cui tutti concordano è la sua particolare dote di astuzia e scaltrezza: era colui che otteneva sempre qualcosa in cambio, tant’è che fu - si dice - il promotore del commercio. Divenne tristemente famoso per la pena eterna che gli dei gli inflissero quando discese definitivamente nel Tartaro. Così ce lo descrive Omero nell’Odissea: "E poi Sisifo vidi, che spasmi orrendi pativa che con entrambe le mani spingeva un immane macigno. Esso, facendo forza con ambe le mani ed i piedi su su fino alla vetta spingeva il macigno, ma quando già superava la cima, lo cacciava indietro una forza. Di nuovo al piano così rotolava l’orrendo macigno. Ed ei di nuovo in su lo spingeva e puntava; e il sudore scorrea pei membri e via gli balzava dal capo la polvere".

Ma perchè tanto accanimento? E' difficile infatti immaginare una punizione più inaccettabile del lavoro inutile e senza speranza, specie se faticoso fino allo stremo.
La leggenda di Sisifo comprende numerosi episodi dei quali ognuno è la storia di un’astuzia. Si dice tra l’altro che ottenne l’amore di Anticlea, poi sposa di Laerte, la vigilia stessa delle loro nozze: fu così che venne concepito Ulisse, l’astuto per eccellenza. Ma particolarmente scaltro ed arguto Sisifo si rivelò proprio nel cimentarsi con gli dei.
Si narra che quando Zeus rapì l’ennesima fanciulla Egina, figlia di Asopo, dio dei fiumi, Sisifo lo vide e raccontò il fatto ad Asopo stesso, ottenendo in cambio che nella città di Corinto scaturisse una fonte inesauribile.
La delazione scatenò prevedibilmente la collera del padrone degli dei, il quale inviò a Sisifo il genio della morte, Thanatos in persona, ma l’eroe, più svelto di lei, la mise in catene e per un certo tempo nessuno morì più sulla terra.
Intervenne ancora Zeus a liberare Thanatos, che discese nel Tartaro portando con sè anche l’irrispettoso Sisifo. Ma ancora una volta la sua astuzia ebbe la meglio sul volere degli dei: avendo comandato - di nascosto - alla moglie Merope di non dargli sepoltura, cosa inaccettabile anche per i padroni degli Inferi, ottenne il permesso di tornare in terra per redarguire la moglie affinchè rimediasse alla mancanza. Ma quando egli "ebbe visto di nuovo l’aspetto del mondo, ed ebbe gustato l’acqua e il sole, le pietre calde e il mare, non volle più ritornare nell’ombra infernale. I richiami, le collere, gli avvertimenti non valsero a nulla.
Fu necessaria una sentenza degli dei. Mercurio venne a ghermire l’audace per il bavero e, togliendolo dalle sue gioie, lo ricondusse con la forza agli inferi, dove il macigno già era pronto." (Camus)
L’ira degli dei sembra dunque trovar giustificazione in tanto "umano osare", nell’esser stati ripetutamente messi in ridicolo da qualcuno che agiva, in fondo, per pura immediatezza .
E qui sta la particolarità del nostro personaggio: accomunato a Prometeo, per esempio, dal sentimento di somiglianza con gli dei e dalla spinta irrefrenabile a "sfidarne il potere", se ne distingue tuttavia per una sorta di mancanza di "peso", di spessore nell’agire.
"Sarete come dei" suona la biblica frase del serpente tentatore, che indusse gli uomini ad avviarsi sulla perigliosa strada della conoscenza.
"Io vi ho detto che siete dei" (Gv.10.34) risuonano le parole del Cristo ai suoi discepoli, semplici pescatori d’Israele.
Ma consapevolizzarsi di ciò, "vedere" ed accogliere fino in fondo questa somiglianza, questo essere "stessa sostanza di Dio", comporta un prezzo elevato: l’assunzione di un compito che rivela la sua fatica titanica, consistente nel reggere il peso del conflitto - tutto interiore - di riconoscere in sè gli opposti, e di reggerlo fino in fondo, fino alla lacerazione, come l’immagine del Cristo in croce ben ci ricorda.
E proprio qui appare la "nota stonata" della vicenda di Sisifo, almeno nella prima fase: egli non agisce contro il potere costituito (il Padre, gli dei) inconsapevolmente, come accadde a Edipo, la cui tragedia erompe quando lui "sa", nè agisce contro gli dei per amore di una "giusta causa", quale era apparsa agli occhi di Prometeo la causa dell’umanità.
Niente di tutto questo: Sisifo agisce sì la coraggiosa sfida, ma lo fa in una sorta di "infanzia del pensiero", alla ricerca di una esistenza beata qui in terra, senza morte nè dolore, in una sorta di raggiunto Eden.
La sua vicenda sembra più legata al mito dell’Eden che al ciclo degli eroi, almeno fino all’incontro col macigno: qui, paradossalmente, acquista spessore tutto il mito, e tanto era esasperata prima l’inconsapevolezza - del prezzo della vita, intendo - tanto è esasperato ora il peso, il dolore, la concretezza. Sisifo, nel suo eroico "osare", era rimasto in un rapporto di "competizione" con gli dei, e non si accorgeva così proprio sfidandoli, di perpetuarne il potere.
Ricorda in ciò l’ibrida situazione dell’adolescente quando vede notevolmente ridotta la distanza tra sè e l’adulto e, attratto e spaventato insieme, lo "sfida" o gli si contrappone, riconfermandolo nel suo essere l’altro, il diverso, l’adulto appunto.
Ma veniamo all’immagine finale di Sisifo col masso, inutilmente trascinato ogni volta fino in cima.
"Se questo mito è tragico - scrive Ca-mus - è perchè il suo eroe è cosciente: in che consisterebbe infatti la pena se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? " Questa immagine ci fa intuire la capacità, tutta umana, di "accettare l’inaccettabile", che, a seconda che sia vissuta nella consapevolezza o nella radicale proiezione, si trasforma in risorsa o condanna.
"Si è già capito che Sisifo è l’eroe assurdo, tanto per le sue passioni che per il suo tormento". Ora egli è costretto - e prima o poi tocca a tutti il momento della prova - a conoscere la fatica: chi lo ha condotto fin lì è stata la sua passione per la vita, ed è la vita stessa che ora gli mostra l’altro suo lato, il macigno. E lì lo attende l’appuntamento con la coscienza del proprio "esserci", al di là di tutto.
Perchè tornare ad alienare da sè la causa, attribuendo il macigno -ma con esso la vita tutta - ad un volere altrui, perchè tornare a ricostituire il dio fuori di noi?
"Voi siete dei" diceva il Cristo ben consapevole della croce che lo attendeva. Camus sintetizza saggiamente che "la felicità e l’assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili. Non v’è sole senza ombra e bisogna conoscere la notte." Allora il macigno è la vita stessa che richiede di essere accolta in ciascuno di noi consapevolmente, che pretende di essere non solo vissuta, ma anche saputa, prima ancora che "capita." "Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene."

Bibliografia: Enciclopedia dei miti - Garzanti; Camus "Il mito di Sisifo" - Bompiani.


Agnese Galotti


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