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Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Marzo 1995 Pag. 14° Ada Cortese

Ada Cortese

 RICERCHE 

ARCHEOLOGIA DELLA COSCIENZA

"Archeologia della coscienza" non è un termine consolidato accademicamente, ma non troviamo al momento nulla di meglio per segnalare quanto J. Jaynes ha, forse inconsapevolmente, inaugurato. Egli infatti, "scavando" non tanto nel terreno quanto negli "archeotesti" prodotti dalla mente umana, indaga per ricercare l’origine dell’io cosciente quale funzione superiore della psiche.

Nella storia umana intorno al 3000 a.C. emerse una pratica curiosa e notevole. Si tratta di una trasmutazione del linguaggio parlato in piccoli segni su pietra o argilla, cosicchè la parola da allora potè essere non più solo udita ma anche vista. Tra questi segni si celano le vestigia di una forma mentale diversa dalla nostra e i sintomi della nascita di quell'esperienza soggettiva che chiamiamo "io cosciente".
La domanda che Jaynes si pone è: qual è la forma mentale che viene svelata dagli scritti più antichi dell’umanità.
Interessanti, a tale proposito, ci sembrano le sue riflessioni sull’Iliade considerato come il primo testo scritto in una lingua che sappiamo tradurre con sufficiente sicurezza.
Questa storia di vendetta intrisa di sangue, sudore e lacrime (sviluppatasi da una tradizione orale di bardi o "aoidoi" o aedi fra il 1230 a.C. e il 900 a.C. data nella quale il poema fu messo per iscritto) porta ad alcune sconcertanti (ed interessanti) conclusioni: nell’Iliade in generale non esiste ciò che comunemente definiamo "io cosciente" nè compaiono termini per designare la coscienza o atti mentali.
Le parole presenti nell’Iliade: "psyche", "thumos", "phrenes", "nous", ecc. che in seguito vennero a designare "cose mentali", hanno significati diversi e tutti più concreti.
La parola "psyche", per esempio, che in seguito passò a significare "anima" o "mente cosciente", designa nella maggior parte dei casi sostanze vitali come il sangue o il respiro: un guerriero morente stilla la sua "psyche" al suolo o la esala nel suo ultimo ansito.
Il "thumos", invece, che passerà in seguito a significare qualcosa di simile all’anima emozionale, designa qui sempre e semplicemente il movimento o l’agitazione (da cui "tumulto"). A volte è inteso come funzione responsabile di tale energia: Apollo ascolta la preghiera di Glauco e infonde vigore nel suo thumos. Il thumos abbandona le membra di Patroclo morente. Un oceano infuriato ha thumos.
La parola "phrenes", che in seguito designerà la "mente" o il "cuore" in senso figurato è qui usata per indicare qualcosa che assomiglia ad un organo o sensazione localizzati vicino al diaframma: sono le "phrenes" di Ettore a riconoscere che suo fratello non è vicino a lui.
La parola "nous" in seguito designerà l’intelligenza, ma qui, fedelmente alla sua etimologia (deriva dal verbo "no eo" ossia "io vedo") , ha sempre significato di "percezione", "riconoscimento", "campo visivo": Zeus tiene Odisseo nel suo "noos". Egli, cioè, vigila su di lui.
Per la parola "meros" ("parte", "in due parti") i moderni traduttori, nel desiderio di dare una presunta qualità letteraria alla loro opera, traducono in "io pondero, ho la mente turbata, cerco di decidere". Essa invece è usata sempre per indicare un conflitto tra due azioni e non tra due pensieri. Infatti del conflitto si dice spesso che ha luogo nel thumos o qualche volte nelle phrenes ma mai nel nous. L’occhio infatti non può dubitare o essere in conflitto, come potrà invece la mente cosciente, che secondo Jaynes, a quel tempo non era stata ancora "inventata". In tutta l’opera non esiste alcun riferimento ad un concetto di volontà nè una parola che lo designi. Gli uomini dell’Iliade vengono descritti dunque come se non avessero una propria volontà e certamente non hanno alcuna nozione di libero arbitrio.
Una parola della quale si avverte similmente l’assenza nel linguaggio dell’Iliade è quella per "corpo" nel nostro senso moderno. La parola "soma" infatti in Omero è sempre al plurale, e significa "membra morte" o "cadavere". Essa è l’opposto di psyche. Ci sono varie parole che designano varie parti del corpo e in Omero il riferimento è sempre a tali parti. Mai al corpo nella sua totalità’.
Non sorprende quindi che l’antica arte greca di Micene e del suo periodo presenti l’uomo come un aggregato di membra con le articolazioni raffigurate in modo inadeguato ed il torso quasi separato dai fianchi. E ciò, sul piano dell’immagine, corrisponde alle descrizioni omeriche in cui si parla di mani, braccia, omeri, polpacci, piedi e cosce, descritti come veloci, forti, in rapido moto, ecc. senza alcuna menzione del corpo veduto nel suo insieme.
I personaggi dell'Iliade non hanno momenti in cui si fermano a riflettere sul da farsi. Non hanno, come noi, la coscienza di essere coscienti e certamente non hanno la facoltà dell'introspezione.
Quando Agamennone sottrae ad Achille la sua amante, è una dea ad afferrare Achille per la chioma bionda e ad ammonirlo a non colpire Agamennone. E' una dea che sorge dal mare e lo consola nel suo pianto d'ira sulla spiaggia, è ancora una dea che sussurra a Elena di togliersi dal cuore la nostalgia della patria lontana, è una dea che avvolge Paride in una nebbia proteggendolo dall'attacco di Menelao. Sono gli dei che guidano gli eserciti in battaglia, che parlano ad ogni guerriero nei momenti decisivi e discutono e dicono a Ettore cosa deve fare. Sono gli dei che danno inizio alle contese tra uomini e che, soprattutto, ne decidono le strategie. Insomma, sono gli dei che prendono il posto di quello che noi chiamiamo coscienza riflessiva e progettuale.
Le azioni non trovano i loro inizi in piani, ragioni e motivi coscienti, bensì nelle azioni e nei discorsi degli dei.
L’opera, che potrebbe essere definita "il poema della frammentarietà e dell’immediatezza", si conclude però con un gesto sorprendente: per la prima volta nella storia un uomo ordisce un inganno, mostrando le premesse di una nuova e più complessa organizzazione mentale dalla quale sprizzerà la scintilla della "nuova coscienza".
Fino a quel momento la guerra si era stiracchiata qua e là per dieci lunghi anni sospinta dagli umori e dalle ripicche degli dei senza nulla progettare e nulla concludere.
Poi, un bel giorno, Ulisse concepì uno stratagemma che a noi, oggi, può apparire anche banale e puerile, ma che allora esplose con la forza dirompente della "novità inafferrabile" travolgendo insieme all’ingenuità dei Troiani un intero modello mentale, che pure aveva egregiamente funzionato per migliaia di anni, ma che d’ora in avanti non avrebbe potuto fare a meno di adeguarsi ed evolversi intorno ad istanze del tutto nuove: la progettualità e la volizione.

Bibliografia: J.Jaynes "Il crollo della mente bicamerale" ed. Adelphi '88


Ada Cortese


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