Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Giugno 1995 Pag. 3° Maria Campolo
 TEORIA 

LA COAZIONE A RIPETERE

Il sintomo nevrotico ripetuto coattivamente, può essere portatore di autentica libertà se accolto come richiamo impellente alla necessità di decodificarne il messaggio.

Freud nella sua teoria sulle pulsioni sostiene che ogni processo psichico si mette in moto solo quando vi è una tensione che viene vissuta come spiacevole o dolorosa.
Il processo psichico quindi, secondo questa teoria, avrebbe come fine quello di annullare la tensione dolorosa e produrre così uno stato di quiete che equivarrebbe al piacere.
Pur tuttavia il principio di piacere non può esercitare, secondo Freud, il dominio incontrastato, prova ne è l'esistenza del principio di realtà che entra in gioco quando l’essere vivente avverte delle istanze che minacciano la sua autoconservazione.
In questo caso il principio di piacere è solo temporaneamente sospeso o meglio contenuto: è questo il modo in cui vengono educate le pulsioni.
Nella coazione a ripetere le pulsioni che operano però sembrano essere in contrasto con il principio di piacere, poichè esse portano dolore e disagio all’individuo, che sembra subire passivamente un "meccanismo" che non riesce ad interrompere.
Ma andando alle origini delle pulsioni, Freud arriva a scoprire che, celata dietro la coazione a ripetere, vi è una pulsione che opera "al di là del principio di piacere", la quale tenderebbe a ripristinare uno stato anteriore, ancestrale che egli fa risalire al mondo della materia inorganica, quando l’inerzia regnava sovrana in un mondo dove l’impulso di vita e la tensione che essa porta con sè non esistevano ancora.
Questa pulsione, o principio di morte (Thanatos), ha come scopo la conservazione (la cui modalità è quella appunto della ripetizione): essa tende a riportare ad uno stato di quiete ciò che sotto l’impulso di vita (Eros) viene avvertito dall’essere vivente come una forza perturbatrice che mina quello stato di immobilità a cui vorrebbe far ritorno.
Il tentativo è quello di ritornare all'uno iniziale, quando la sostanza vivente non era ancora suddivisa nelle tante particelle che, come sostiene anche Platone, andrebbero da allora ricercandosi per riunirsi nuovamente.
La ripetizione coatta del sintomo nevrotico diventa così il luogo dove si danno battaglia le due grandi categorie universali di Vita e Morte.
Possiamo infatti assimilare al concetto di stasi quello di morte, inteso come condizione di quiete in cui, proprio come nella morte, non vi è tensione nè vi sono impulsi che spingono verso qualcosa. Non vi è di conseguenza neppure conflitto o alcun fattore perturbante che possa minacciare un equilibrio già dato.
Ma il tentativo di eludere lo slancio vitale non può riuscire completamente poichè l’uomo è, per sua natura, un elaboratore di nuova conoscenza che si avvale della ricettività agli stimoli che arrivano sia dall’esterno che dall’interno.
Lo stato che affascina l’io è quindi quella lontana condizione in cui non vi è ancora coscienza e perciò neppure conflitto. E’ forse il lontano "ricordo" di quell’appagamento immediato vissuto nella diade fusionale di madre-figlio; è l’ancestrale fascino che esercita sull’uomo il nulla, così come il canto delle sirene cercava di affascinare Ulisse affinchè interrompesse il suo viaggio verso la conoscenza e si abbandonasse all’oblio.
Ritroviamo nuovamente il conflitto tra vita e morte analizzando due tendenze che sono presenti nell’essere umano: il dover essere ciò che si è, che equivale all'individuazione, e la tendenza ad identificarsi in un modello proposto dall’ambiente sociale.
L’uomo ha la necessità imprescindibile di vivere nel consorzio dei suoi simili e questo comporta un inevitabile conflitto che sorge tra la sua diversità, e quindi tra le sue esigenze interiori, e la tendenza a cedere alla coscienza collettiva che gli propone di conformarsi con credenze, usi, valori che la società ha adottato.
Accade quindi che l’individuo si identifichi con il ruolo approvato dalla collettività e, irrigidendosi in esso, non riesca ad integrare i propri bisogni interiori che dall’inconscio premono per essere accolti dalla coscienza.
Nasce così il sintomo nevrotico che Jung definisce come una sorta di compromesso che l’uomo stipula con se stesso quando, limitando la propria esistenza in rigidi schemi di comportamento, esclude qualsiasi dialogo interiore da cui potrebbe scaturire l’evoluzione della personalità. Anche qui il "vantaggio" che tale compromesso si ripromette, inutilmente per altro, di ottenere è quello di non sostenere il conflitto che di volta in volta le istanze profonde dell’individuo inevitabilmente provocano ad una coscienza che vorrebbe riconoscersi solo in quella collettiva.
Dunque pur partendo da interpretazioni differenti del sintomo nevrotico si possono cogliere dei punti in comune.
Infatti sia che si parli, come Freud, di pulsione di morte oppure, come Jung, di tendenza all'identificazione, la sostanza profonda non cambia: in entrambi i casi si manifesta la tendenza alla ripetizione ed al tentativo di eludere la tensione vitale.
Eppure la sola norma che si ripete costantemente nell’uomo è il suo bisogno di trasformare continuamente se stesso e l’ambito sociale in cui vive, che equivale a dire che la vita, intesa come slancio evolutivo, non consente all’uomo di ripercorrere in modo identico sentieri già percorsi, che hanno già dato il loro frutto, restando nella ripetizione del "conosciuto". Questo sarebbe mortifero in quanto significherebbe abortire quella nuova progettualità che ogni individuo porta inscritta dentro di sè.
Il sintomo nevrotico e la conseguente ripetizione coatta assume allora il significato del tentativo che l’inconscio mette in atto affinchè ogni individuo, accogliendo il malessere che il sintomo provoca, se ne faccia consapevole e acconsenta a realizzare pienamente la propria libertà che consiste nel dire di sì a se stesso.

Bibliografia: S.Freud "Al di là del principio di piacere",Boringhieri; C.G.Jung "La dinamica dell'inconscio", Boringhieri.


Maria Campolo


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