Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Marzo 1997 Pag. 10° Laura Ottonello

Laura Ottonello

 MITI E LEGGENDE 

LE TESTE SCAMBIATE

"A quei tempi due giovani poco diversi di età e di casta, ma molto differenti per incarnazione, vivevano in stretta amicizia"

La novella è una riedizione, ad opera di Thomas Mann, di un mito indiano. Narra la storia di due giovani legati da profonda amicizia.
Shridaman apparteneva a una stirpe di brahmani, era mercante e coltivava lo spirito con lo studio dei testi sacri. Un intellettuale con "uno di quei corpi che possono ben servire da complemento e appendice a una testa nobile e sapiente", Nanda era un semplice figlio del popolo. Allegro ed ingenuo, era vaccaro e fabbro, conosceva bene le cose del mondo ed il suo corpo, muscoloso e prestante, era ciò che esaltava la sua bellezza.
L’amicizia dei due giovani era fondata sulla loro diversità, "erano come Shiva quando si sdoppia ... Shiva che nella Madre è vita e morte, universo e eternità". Per questo, formavano oggetto di contemplazione reciproca. Perchè l’uno e l’altro sono entrambi conformi al discorrere dell’Essere e quindi sono la stessa cosa.
Un giorno partirono, per motivi diversi, per un viaggio insieme.
Fecero una sosta presso il fiume "Mosca d’Oro" e qui, in un paesaggio incantevole, dopo aver diviso il loro pranzo, si posero in ascolto di quella particolare condizione di pace e serenità che quel luogo ispirava. Ad un tratto, da dietro le fronde, scorsero una bellissima fanciulla che si lavava nelle acque del fiume.
Nanda riconobbe in lei la bella Sita (Solco) che, in passato, aveva dondolato su un’altalena. Shridaman fu letteralmente folgorato alla vista di tanta bellezza. Nei giorni successivi era tanto turbato e confuso da desiderare la morte.
Nanda, che aveva riconosciuto in quella che appariva come una malattia, nient’altro che l’amore, offrì il suo aiuto all’amico intercedendo presso la famiglia di lei per convogliarli a nozze. E così fu.
Sei mesi dopo Sita, che era incinta, volle andare a trovare i suoi genitori. I tre si misero in viaggio, con Nanda alla guida del carro. Viaggiavano di giorno. E, "siccome nei loro cuori c’era lo smarrimento e questo è favorito dall’oscurità, approfittarono inconsciamente dell’occasione per proiettare nello spazio lo smarrimento interiore" si smarrirono nella regione.
Pernottarono nella boscaglia e, quando fu giorno, perlustrando i dintorni alla ricerca della "via", trovarono un tempio scolpito nella roccia.
Shridaman espresse il desiderio di entrarvi, per pregare la dea Kalì. Era un antro raccapricciante, con rilievi sulle pareti della vita carnale, teste d’animali e un acre odore di sangue. L’orrore diventò esaltazione e il giovane, turbato ed eccitato al tempo stesso, decise di sacrificarsi alla dea.
Impugnata la spada, ancora sporca di sangue, si tagliò la testa.
Frattanto Sita e Nanda, fuori, erano in uno stato di preoccupata attesa finchè Nanda decise di andare a vedere cos’era successo. Entrato nel tempio e tremante di fronte ad una visione tanto cruda, cominciò a singhiozzare. Si interrogava sul significato di quel gesto e su una conflittualità che non era mai emersa chiaramente.
Incapace di venire a capo ad una soluzione - lui già da tempo voleva ritirarsi nel deserto - decise allora di morire insieme all’amico del cuore e così si tagliò, con quella stessa spada, il capo.
Sita, dopo un lungo indugiare, entrò a sua volta nell’antro oscuro e, di fronte a tale scenario, sconvolta che i due si fossero uccisi per causa sua, decise di impiccarsi. Ma la dea la fermò. Non accettando più quel duplice sacrificio umano perchè non del tutto sincero, offrì a Sita l’opportunità di ristabilire le cose rimettendo le teste al loro posto.
Ma, nella fretta e nella confusione, Sita invertì le teste.
Così, quando i due giovani si rimisero in piedi, si accorsero dello scambio.
Shridaman, che aveva il corpo prestante di Nanda, non era scontento di questa sua nuova condizione, e così era per Nanda che ora "era" il corpo del marito.
Ne nacque una discussione. Tutti e due avanzavano il diritto coniugale sulla bella Sita, in quanto l’uno era la testa di sempre, e all’altro apparteneva quel corpo che aveva inseminato la sposa. Per risolvere la difficile questione Nanda propose di demandare la soluzione ad un asceta della foresta.
Kamadamana, l’eremita, pur sottolineando che, alle nozze, è la mano destra che si porge alla sposa, e la mano appartiene al tronco, tuttavia "Sposo è chi porta il capo maritale." Fu una delusione per Nanda che decise di seguire la via dell’anacoreta, ma una gioia per Shridaman, e anche per Sita che poteva finalmente e legittimamente gustare le gioie dell’amore con quel corpo tanto agognato.
Accadde poi che, col tempo, i due corpi si trasformarono, una metamorfosi fisica ad opera di un’azione reciproca fra testa e corpo. Come fosse impossibile scindere l’elemento spirituale dal mondo dei sensi poichè l’antitesi tra spirito e bellezza è fittizia, illusoria.
Sita era ossessionata al pensiero dell’amico lontano; se lo immaginava anch’egli mutato e pensava che Nanda, come lei, soffrisse spiritualmente d’essere separato.
Nacque suo figlio, Samadhi (Raccoglimento) che, essendo molto miope, fu soprannominato Andhaka, cioè Ciechino. Sita non si dava pace per le sorti di Nanda al quale avrebbe voluto mostrare il figlio, carne della sua carne. Così, una volta che il marito era lontano per affari, si mise in viaggio e, insieme al piccolo, si recò a trovare Nanda.
Dopo un viaggio lungo, alla fine ritrovò l’amico che, con la coscienza (in testa) di quel ricordo d’amore, le diede un caldo benvenuto.
La loro felicità nuziale durò soltanto un giorno e una notte perchè intanto Shridaman, che tornando a casa aveva intuito dove fosse sua moglie, era sopraggiunto.
Si riaprì l’annosa questione e ognuno era disposto a farsi da parte in virtù della scelta di Sita. Ma questa, ben consapevole che "invano i migliori tendono a un’esistenza nella quale il riso dell’uno non sia pianto dell’altro", dopo che Shridaman e Nanda decisero di deporre la loro individualità per ricongiungersi con l’essere universale, volle porsi sul rogo funebre insieme a loro.
Solo il fuoco poteva rigenerare un pensiero che, attraverso quelle singole individualità, nella dimensione del quotidiano, non si era dato.
E il piccolo Andhaka la cui miopia lo preservò dalla seduzione di maya (l’apparenza), sembra essere il frutto di un passaggio evolutivo per una rinnovata, unitaria, più consapevole dimensione dell’Essere.


Laura Ottonello


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