Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Home Anno 07° N° 24
Giugno 1998 Pag. 10° Agnese Galotti

Agnese Galotti

 METODO 

PRESENZA E FOLLIA:
L'INCONTRO COL NUMINOSO

"Spazio spazio io voglio, tanto spazio
per dolcissimo muovermi ferita;
voglio spazio per cantare,
crescere errare e saltare il fosso
della divina sapienza .
Spazio datemi spazio
ch'io lanci un urlo inumano,
quell'urlo di silenzio negli anni
che ho toccato con mano"
(Alda Merini)

Da che ho iniziato a riflettere sul tema della follia, molte cose si stanno muovendo in quella direzione, costringendomi ad amplificare la riflessione e contemporaneamente ad ampliare la capacità emotiva di contenere e comprendere.
Ho avvertito il rischio di un’accoglienza "superficiale", che rasenta l’atteggiamento di chi "accoglie" la follia ma continua a sentirsi per contro "sano", mantenendo la barra divisoria.
Sento invece che il passo, tanto ardito quanto "ardente" consiste nel percepire ogni manifestazione all’interno dell’uno, superando ogni accenno di scissione volta solo a creare barriere rassicuranti, riconfermando alterità.
Ad un tratto ho avuto la chiara percezione che la soglia è una, oltre la quale si trovano sia le sensazioni di frammentazione psicotica e di scoordinazione totale, sia quelle di sublime percezione dell’uno.
Non credo si tratti di "ambienti" differenti quanto invece di differenti atteggiamenti da parte dell’occhio che vede.
Quello che mi pare discrimini l’una esperienza dall’altra è la presenza, il permanere del dialogo con qualcuno in me che, affidandomi alla sua vastità, tutto "comprende", al di là del mio immediato "capire".
Follia si è sempre accompagnata a differenza, esclusione, è una parola che richiama immediatamente alla realtà dell’internamento, della segregazione, al dolore dell’isolamento e della incomunicabilità.
L’altro lato cui è sempre stata associata è la "follia divina", l’esperienza del sacro, l’esaltante incontro col numinoso che permette la visione globale, che fa sperimentare il vero.
L’incontro con la presenza quale riconoscimento in sè di tutto quanto andiamo sperimentando, la presenza che allenta sempre più la barra divisoria tra me e l’altro, tra dentro e fuori, è esperienza che ci avvia all’apertura a spazi sempre più grandi che non ci lasciano più così estranei alle profondità dell’abisso ed alle enormità degli spazi siderali.
Non si tratta di fuggire le manifestazioni dell’inconscio, nè tantomeno di addomesticarle, bensì di farsi sempre più disponibili a rapportarcisi mantenendo la percezione di sè, (del Sè) dunque la presenza.
In un sogno così si diceva:

Ero in campo di concentramento e con altri venivo condotta in un reparto in cui ci avrebbero imbottito di psicofarmaci. Ero serena mentre pensavo che l’unica cosa cui avrei fatto costante riferimento era la presenza.

Affidarmi a quella percezione era tutto ciò che mi restava e mi restituiva serenità.
Nessuna garanzia, solo un grande anelito.
L’esperienza di percezione dell’uno comporta un processo di smantellamento dei riferimenti cui l’io cosciente è solito aggrapparsi, analogo a quanto accade nei meccanismi della dissociazione, nella frantumazione psicotica dell’io.
Eppure ci può essere l’esperienza sublime della percezione dell’universo, di cui i mistici ci han reso testimonianza, oppure l’angoscia terrifica dello smarrimento più totale.
Ad alcuni spetta l’una percezione, ad altri l’altra.
Mi viene da pensare che il peggio sia il non varcare quella soglia: "questa è vera follia".
"Follia" per me oggi è il restare, per timore, al di qua della soglia, nel non senso pseudo rassicurante di una presunta normalità, restare nell’edipica protezione di una qualsiasi istituzione che ricrea nuovi confini. Questa è la vera insensatezza.
La paura della follia, di impazzire, di perdersi nelle oscurità dell’inconscio e di non fare più ritorno è il sottofondo di molti sintomi nevrotici che, insieme alla paura della morte, travaglia tante esistenze: in entrambi i casi è in ballo il nulla, l’insensatezza, il vuoto.
La paura di "andar fuori" è già di per sè intuizione di un "fuori" che minaccia e chiama a confrontarcisi.
Esperienza da cui l’io maggiormente si difende, ma di cui il soggetto in noi ha primariamente bisogno, per abitare l’immenso territorio che in noi si spalanca appena ci affacciamo al di là dei confini dell’io.
E’ l’abisso che abita in noi (o noi in esso) che prima o poi fa capolino alla nostra coscienza e ne mette alla prova la spaziosità effettiva.
In un sogno giunto al gruppo:

La sognatrice era visitata da una folle che ce l’aveva proprio con lei. Ella tentava in tutti i modo di placarne le ire, con la parola, con il contenimento fisico, tutto era inutile. Solo quando infine si trovavano entrambe avanti al luogo dell’analisi, la sognatrice abbracciava la folle e questa finalmente si placava.

In realtà il lavoro coscienziale non ci garantisce nè dalla morte nè dall’insensato: sono entrambi aspetti della vita stessa da cui nessuno può proteggerci, pena l’alienazione.
Ci stimola semmai a convivere con il vuoto che ci abita, senza più assolutizzarlo, ad accoglierlo senza soccombervi.
Spesso ci si protegge da tale contatto ponendosi sotto le ali di una qualche istituzione che sancisca i confini del "dentro" e del "fuori", restringendo la vastità dell’essere in noi.
Ma i soggetti nei quali è inscritto il programma genetico dell’universo non possono restare in tali angusti confini: prima o poi, qualche contenuto inconscio esplode e li costringe ad ulteriore apertura, a portare dentro ancora un po' di mondo, a superare ancora ulteriormente l’alterità.
Nella "Storia della follia" M. Foucault parla di un oggetto curioso ed inquietante che compare nel paesaggio immaginario del Rinascimento: la nave dei folli.
Si tratta di uno "strano battello ubriaco che fila lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi", in cui sarebbero imbarcati i folli per una navigazione pellegrina senza precisa destinazione.
In questa immagine sarebbero presenti entrambi i lati della follia: la segregazione con cui il sociale è solito difendersi dall’esistenza del conturbante, e insieme una sorta di rito che affida il folle alle acque che preludono al grande passaggio, le acque che uniscono i due mondi.
La "nave dei folli" evoca anche in noi da un lato il gesto di esclusione che istintivamente ci assale per difenderci dall’insensato, che pure è stato sempre motore di ogni ricerca di senso, dall’altro evoca pure quel viaggio nei marosi dell’inconscio in cui ciascun ricercatore finisce per avventurarsi qualora sia nel suo destino il non potersi accontentare di modelli di conoscenza già dati e gli spetti invece la via della conoscenza sperimentale.
Allora su quella nave dei folli, che mette in relazione dialettica i due mondi, la ragione e la non ragione, la sapienza e l’insensatezza, l’aldiquà e l’aldilà, su quella nave, dicevo, ci auguriamo di essere in viaggio anche noi.

Alda Merini "Vuoto d’amore"

Agnese Galotti


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