Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
Direttore : Dott. Ada Cortese
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Home Anno 7° N° 25
Settembre 1998 Pag. 8° Agnese Galotti

Agnese Galotti

 METODO 

DALL’INTERDIPENDENZA ALL’INTERSOGGETTIVITA’

Sconvolgente esperienza

Talvolta, nelle relazioni significative, ci è dato sperimentare un passaggio evolutivo caratterizzato da un vissuto di sollievo, un piacere particolare associato ad una sensazione di ritrovata libertà.
Accade in genere quando viene superato uno schema rigido: cade il velo che copriva i due del rapporto e, ad un tratto, ci si mostra l’un l’altro nella propria essenza, e ciascuno si fa disponibile a "vedere" se stesso e l’altro con occhi nuovi.
Va detto che il passaggio non è dato una volta per sempre: viene riscelto ogni volta dai due interlocutori attraverso l'atteggiamento con cui tornano di volta in volta a porsi nella relazione. Soggetti lo siamo potenzialmente da sempre, ma esserlo consapevolmente dipende dalla nostra disposizione profonda a riconoscerci tali, e dall’attivazione cosciente a "diventare" concretamente ciò che già siamo.
Questo tipo di scelta pone a rischio un’abitudine atavica a mantenere uno spazio di riserva, di delega ad altri, onde mantenerci almeno in parte "oggetti in balia", dipendenti da qualcuno o qualcosa fuori di noi. E’ l’abitudine ad avere, all’occorrenza, un alibi.
Tuttavia, l’aver sperimentato almeno una volta quella sensazione di libertà, quella forma di amore verso l’altro che non esclude ma anzi richiede l’amore per sè, è fondamentale per poterne evocare la memoria, per sentirne concretamente la mancanza.
Quando, nel rapporto analitico, si registrano passaggi del genere, particolarmente preziosi, è esperienza commovente: sono attimi che valgono mille fatiche, occasioni in cui duro lavoro e leggerezza estrema, dolore e piacere si incontrano e si abbracciano celebrandosi vicendevolmente, superando ogni scissione.
Con S. donna di 25 anni in analisi da due, è accaduto il salto con una sincronicità tra sogni e vissuti da parte di entrambe, al solito, meravigliosa. E’ quando la relazione stessa si evidenzia quale soggetto della trasformazione, che gli avvenimenti inerenti ad essa non sono più spiegabili in termini di causa - effetto: più eventi sincronici costellano tale passaggio evolutivo che non può che comprendere i due soggetti coinvolti nel rapporto e, con essi, il contesto in cui si collocano aprendovi nuove possibilità.
E’ allora che si fa particolarmente evidente come l’essere, nella sua unità, si serva delle sue differenti forme e manifestazioni, che noi siamo, per tornare a riconoscersi uno.
Il rapporto con S. era iniziato, come quasi sempre accade, con un atteggiamento di marcata dipendenza: il suo malessere l’aveva portata da me affinché io la "guarissi." I sogni d’inizio analisi sovrapponevano la mia figura a quella di medici, in istituzione ospedaliera, intenti ad operare su corpi o singole parti di essi. Il patire era quindi associato a rimozione totale della soggettività. Per fortuna questa totale alienazione generava in lei un forte malessere che contrastava con l’atteggiamento cosciente, sempre conciliante.
Infatti la soggettività, inconsciamente già segnalata dal malessere stesso, si sentiva costretta e segregata nella forzatura che la spingeva a stare in un modello relazionale, appreso in famiglia, in cui non era previsto il momento dialettico, in cui si dà la differenza, l’opposizione, il dissenso: non era previsto il litigio, ne’ alcuna forma di aggressività esplicita.
Non che non ci fosse aggressività, anzi, ma tutto doveva restare implicito, doveva esser salvata l’immagine di pace paradisiaca che tutti recitavano, quella che S. stessa paragonò ironicamente alla "famiglia Bradford". Il freno in lei si manifestava in un’atavica inibizione a dire, a verbalizzare soprattutto i sentimenti sgradevoli e ancor di più quelli aggressivi che, accanto all’amore filiale, pure provava.
Il grande attaccamento alla famiglia, vissuta come mito dell’Eden, le aveva impedito fin qui di manifestarsi per come realmente si sentiva, l’aveva spinta a tacere e rimuovere fino al rischio di "non sentire più" tutto ciò che non rientrava nel modello, da tutti condiviso, di grande amore senza contrasti, per cui ogni tentativo di rompere l’incantesimo era impedito da un senso di colpa che ulteriormente alimentava l’iniziale inibizione.
Qualcosa si ruppe quando S. prese atto del fatto che il suo timido dirsi, rispetto alla madre specialmente, era rigorosamente accompagnato da un sorriso forzato, quasi a rassicurare se stessa (e la madre dentro di lei) del fatto che andava comunque tutto bene, sorriso che in realtà nessuno le stava chiedendo e che contrastava volgarmente con quanto ella andava finalmente esprimendo.
Quel sorriso forzato, da brava bimba, deturpava la bellezza della sua espressione più vera ed autentica di donna: era il segno tangibile del suo restare, nonostante gli sforzi, nella dimensione edipica e filiale.
Allora arrivarono i sogni in cui: Faceva l'amore col fidanzato ma si accorgeva di essere in realtà nel letto dei genitori, con la madre che puntualmente entrava interrompendo l’intimità.

Si apriva finalmente la consapevolezza del conflitto interno tra chi vuol crescere ed aprirsi alla dimensione soggettiva e chi vorrebbe continuare ad evitare ogni tensione, restando bambina.
Gradualmente, grazie anche al lavoro in gruppo che l’ha posta avanti alla necessità di relazionarsi con la propria coralitá interna, S. ha attenuato l’inibizione che caratterizzava il suo logos ed ha cominciato ad aprirsi ad una conoscenza di sè e del mondo in termini dialettici, facendosi perciò capace di accogliere anche i lati fin qui rifiutati.
Ha così iniziato a sperimentare che il rapporto non solo sopravvive ai suoi vissuti, anche i più aggressivi, ma ne esce rafforzato da una maggiore autenticità, da quella solidità che solo i rapporti in cui ci si vede per come si è, comportano.
Ai sogni in cui: Prendeva tempo, anziché seguirmi saltando sulle tre pietre che segnavano il percorso, oppure: La nostra intimità era inficiata dal suo sentirsi scolaretta tesa alla ricerca della risposta esatta da dare all’insegnante, ne seguirono altri in cui: Saltava coraggiosamente il fosso per avviarsi lungo il percorso che le stavo indicando e che era il medesimo per entrambe, sogno questo che giunse in risposta ad un invito ad ampliare il lavoro in termini di ricerca insieme.
Accade così che, grazie al suo cominciare a liberarmi dalla proiezione genitoriale, io possa riconoscere in S. un'interlocutrice del dialogo, una compagna di percorso, e le sedute divengano occasione per proseguire un filo di pensieri, una riflessione, l’occasione affinché il pensiero che ci attraversa di volta in volta si formuli con maggiore chiarezza.
Mentre vivo tutta la godibilità di questo livello di scambio che permette ad entrambe di cogliere ogni singola esperienza nel suo lato universale, accade che, la seduta successiva, S. porti il seguente sogno:
Siamo in seduta e stiamo parlando quando qualcosa si impone alla nostra attenzione: si tratta di mio figlio, la cui presenza cattura tutte le mie energie con priorità assoluta. Dapprima lo vive come interferente, qualcosa che distoglie e distrae l’attenzione da noi, ma poi si sente altrettanto coinvolta e chiamata in causa nel prendersi, insieme a me, cura di lui.
La riflessione non può che vertere sul possibile equivoco ancora presente, per cui le domando: sicura che sia figlio solo mio? Capisce perfettamente ed accoglie.
Mi dà modo di rimandarle un vissuto che mi arrivava talvolta da lei: una sorta di paura di essere sfruttata, come se fosse pericoloso l’attenuarsi della forma iniziale del "contratto" per cui io do e lei riceve. Visto da un’ottica più distaccata ed universale siamo entrambe sfruttate da qualcuno (il figlio, colui che nasce da un rapporto d'amore!) che, occasione il nostro incontro, arriva a farsi consapevole di sè attraverso l'esperienza dell'amore.
C’è da sperare di essere da lui sfruttate al massimo, e di portare a pieno frutto!

Agnese Galotti


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