Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Home Anno 7° N° 26
Dicembre 1998 Pag. 3° Laura Ottonello

Laura Ottonello

 RICERCHE 

L'ENGRAMMA DELLA CROCE

E’ la consapevolezza che può superare l’engramma della croce, la coscienza dell’unità di sentimenti vissuti come opposti che, per questo, ci inchiodano alla precarietà delle contingenze.

Dolore e piacere costituiscono un binomio inscindibile, un continuum che, attraverso gradi diversi di intensità, riunisce i due opposti.
La neurofisiologia ci insegna che le endorfine, che modulano aspetti del nostro comportamento emotivo, sono ormoni simili agli oppiacei, il cui ruolo è ambivalente. Essi, infatti, intervengono sia nel meccanismo di sedazione del dolore che nel produrre piacere.
Le nostre vicende esistenziali si snodano attraverso storie che, pur nelle varianti storiche, sociali e personali sono esperienze universali che si ripetono.
Se ci fermiamo a riflettere sulla nostra capacità di fare sintesi scopriamo che ciò che spesso prevale e tende a fissarsi è il dolore più che la gioia, come se questo fosse marchiato a fuoco nel nostro DNA., come se un programma assurdo ci orientasse inesorabilmente in tale direzione.
Nel corso della storia, dopo la venuta del Cristo quale simbolo, fra le altre cose, di sofferenza salvifica, il dolore ha assunto una valenza positiva; e così santi e martiri, con coraggio e abnegazione, hanno manifestato la loro fede attraverso un dolore sacro e sensato divenuto valore e modello.
La nostra cultura, pur nella contraddittorietà, tende ad evitare il confronto col dolore autentico e spinge al consumo edonistico; tuttavia, se guardiamo nelle pieghe nascoste dell’animo umano scorgiamo una reale, autentica impossibilità di godere pienamente, consapevolmente e, soprattutto, gratuitamente (ovvero svincolati da una motivazione concreta) della gioia.
E’ il risultato del permanere adesivamente a una logica obsoleta di eterno esilio, ad una drammatica condizione di fragilità legata al nostro essere creaturale. Rigidamente ancorati alla nostra finitudine, siamo condannati ad una solitudine dannata, miseramente dipendenti dalle contingenze e in questo non tanto distanti dai primitivi che dovevano propiziarsi il favore degli dei per scongiurare le carestie e gli orrori della natura.
E’ come se, nel quotidiano, non potessimo mai concederci la felicità e il gusto "dell'esser vivi"; è l’esperienza del dolore a farla da padrona, è sempre lui il protagonista assoluto, il marchio delle vicende più significative.
Come se ancora fosse impresso nelle nostre cellule l’antico binomio che rende dolore = conoscenza e la gioia, in questo confronto, non potesse imporsi con altrettanto vigore e validità.
Il dolore sembra avere più dignità e credibilità nel processo del divenire umano, è un archetipo talmente potente che è scandaloso anche solo immaginare di poter "star bene" accanto ad un’altrettanto viva sofferenza.
E’ ancora un tabù da superare, per abbracciare un semplice "stare" che comprenda tutto il bene e tutto il male del mondo. E’ la consapevolezza che può superare l’engramma della croce, la coscienza dell’unità di sentimenti vissuti come opposti che, per questo, ci inchiodano alla precarietà delle contingenze.
Certo, per superare o quantomeno mitigare la prepotenza del dolore è opportuno condividerlo, portarlo fuori di sè per vederlo e confrontarcisi. Qualche volta le esperienze forti costituiscono ancora una vera e propria via di iniziazione e spesso vi è un male necessario. Tuttavia, solo dopo aver esplorato gli oscuri abissi dell’inferno è possibile riemergere alla luce di una nuova coscienza che sappia andare oltre i cinque sensi e la fattualità esteriore.
Amare la vita non è altro dall’amare profondamente se stessi e per volersi bene non è possibile "raccontarsela". Dobbiamo avere il coraggio di guardare a fondo la nostra anima (e, con essa, la nostra animalità) per confrontarci con la nostra natura contraddittoria.
Una coscienza ottusa che bandisce il dolore ed esalta l’edonismo individualistico costituisce una minaccia per l’uomo che, alienato dalla sua soggettività, perde il senso della sua esistenza e rincorre mete fittizie, perdendosi.
Oggi non ha più senso autoinfliggersi pene corporali per purificare lo spirito come avveniva in passato; c’è una coscienza matura che, come in una moderna alchimia, raffina e trasmuta la materia muta e lo psichico.
E’ la coscienza a portare dentro e a celebrare, nel bene e nel male, una realtà unica e a rendere vivo e autentico, perchè vero, ogni punto-momento: e così, da quel ripiegamento interiore divenuto sensato e dal dolore che ne può scaturire, nasce il suo antidoto.
Il recupero del dolore implica il suo superamento, non per rimuoverlo o per rifugiarsi in un Eden aconflittuale che non esiste, ma per poter serenamente abbracciare un lato della vita che ci appartiene.
Oggi è possibile stare bene, e lo dico a ragion veduta, pur consapevole degli orrori che si consumano nel mondo e tanto "mi toccano"; dobbiamo evocare il bene, pensare bene per sentirci bene.
Riconosco che è impresa non facile, sembra tanto faticoso attenersi ad una lettura affermativa perchè non ci siamo abituati. Questo accade perchè è ancora troppo forte la tentazione di identificarci con il lato negativo delle cose, con un dolore (e la colpa cui spesso è connesso) che rimanda ad una logica arcaica divenuta sterile e disfunzionale.
L’ultimo tabù è proprio questo: infrangere la visione nota e rassicurante del dolore come chiave delle nostre vicende più significative; abbandonare, quindi, un’identità legata ad esso per affrontare l’ignoto che si cela dietro "lo scandalo" dell’infrazione. Il tabù della felicità...
C’è un sogno che parla della nuova condizione umana raggiungibile, peraltro, non senza fatica:
>C’è un luogo onirico in cui gli uomini, alla nascita, hanno il terzo occhio, ma questo è valido solo in potenza: per attivarlo, ognuno deve esercitarsi a mettere a fuoco (la nuova visione) , deve pazientemente imparare ad orientarsi secondo i nuovi parametri fisiologici.< La fascinazione da parte del dolore è forte poichè è intimamente legata alla nostra stessa identità biologica, ma è anche la condizione che ci esilia nella riduttiva, angusta visione personalistica; per questo, spesso, preferiamo abbarbicarci ad esso nel tentativo, vano quanto paradossale, di superarlo.
Ma se facciamo un salto al di sopra di noi e, insieme ad altri, da un ideale terzo punto, guardiamo, allora siamo salvi! Nell’abbracciare la condizione umana, affatto immune dalla sofferenza, i contrasti si attenuano e anche il dolore diventa più dolce e accettabile: è la redenzione e l’abbandono della croce.
E’ la resurrezione ciò che andiamo cercando dietro i riti che si ripetono.
Il sacerdote che "bene-dice" il defunto, in fondo, ci invita a questo esercizio e accogliere il dolore, più che un dimesso accettare, diventa un’affermazione della vita e della gioia.

Laura Ottonello


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