Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione GEA
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Home Anno 8° N° 29
Settembre 1999 Pag. 3° Agnese Galotti

Agnese Galotti

 METODO 

ELOGIO DEL GESTO

E' un gesto nuovo perché realmente libero, non dimostrativo, la cui unica necessità consiste proprio nella sua sostanziale libertà


"Ascolto e sento gli uomini arrivare", si scriveva non molto tempo fa, riscontrando il superamento di una fin lì innegabile preminenza femminile in ambito analitico, e di una altrettanto evidente reticenza maschile a mettersi in discussione.
Piacevole smentita in quel ritrovare compagni di sesso maschile nel percorso di conoscenza, tanto faticoso quanto affascinante.
Sono testimone di questo passaggio in interlocutori nell'analisi che si trovano nella necessità di scoprire ed affermare la propria identità maschile solo dopo aver accettato di affrontare le prove che il `percorso iniziatico' prevede: la morte dell'io che prelude alla rinascita di un io-sé mai più parziale o solo individuale.
Per cui l'atto concreto, il gesto tangibile, di cui il maschile è da sempre simbolo, può seguire solo l'avvenuta rinuncia a qualsiasi preminenza dell'agire sul non agire o sul sentirsi `agiti', tanto che compiere un gesto, passare ad un atto, diviene concretizzazione di quanto realizzato e percepito sul piano di una coscienza più allargata e sempre meno egoica, che tuttavia, proprio per questo, richiede l'attivazione dell'io individuale.
Può trattarsi di un gesto di varia natura: per qualcuno è legato all'esperienza della separazione da un femminile vissuto in termini prevalentemente materni, per altri può essere invece l'affidarsi finalmente al rapporto col femminile, senza più temere d'esserne divorato.
Per qualcuno può essere l'iniziare davvero l'analisi, per altri riprendere gli studi, accettare la solitudine affettiva, iniziare un nuovo lavoro, cimentarsi con l'esperienza artistica… Non ha molta importanza quale sia il contenuto dell'atto che s'ha da compiere: in genere l'importanza sta piuttosto nel rompere gli indugi, allentare ogni resistenza e dare il proprio consenso al gesto, nella percezione e nella consapevolezza che non è più esclusivamente l'io il soggetto di tale azione, né tanto meno il regista.
Ma c'è di più.
Oggi sento che è il momento del maschile anche ad altri livelli.
E' tempo di gesto, di tornare al fare, all'affermazione, sempre più urgente e necessaria, di ciò che è, qui ed ora.
E' possibile perché il maschile, portatore dell'atto, in ciascuno di noi, riconosce già in sé quel femminile che tanto abbiamo coltivato, il quale può astenersi da ogni gesto e da ogni parola, e non ha bisogno di alcuna oggettivazione per sapere di esserci: quindi l'agire non si inflaziona più nell'ego, non rimuove più il sé.
E' un gesto nuovo perché realmente libero, non dimostrativo, la cui unica necessità consiste proprio nella sua sostanziale libertà.
Dopo tanto sottolineare il tempo del femminile, con la sua caratteristica passività consapevole, la necessità di ritiro nel silenzio, l'attivazione di quel `fare del non fare' di cui i mistici testimoniano, che solo consente di raggiungere i livelli più sublimi dell'ascolto, sento imporsi la riflessione sulla necessità del riaffermarsi dell'atto, di cui il maschile è simbolo, ora che, avendo accettato il sacrificio dell'ego, ogni gesto che noi si compia non può più essere prerogativa esclusiva di un machismo egoico ed arrogante.
Il tempo del maschile, così come mi pare di percepirlo ora, sembra richiamare con urgenza l'attenzione circa il fatto che, se non si afferma, a questo punto del percorso, un gesto, un atto concreto che sancisca il passaggio avvenuto, il rischio è ancora una volta quello dell'unilateralità, che è sempre menzognera, che può manifestarsi con un'astensione pigra o, peggio ancora, vile: l'astensione dall'affermare, liberi ormai da dogmatismo ed assolutismo, ciò che è, così come solo nel qui ed ora può essere detto e manifestato.
O ancora, se si permane troppo in una fase, dimenticando l'alternarsi dialettico dei momenti opposti e complementari, il rischio può essere quello di accentuare un'insanabile scissione tra dimensione materiale dell'esistenza - oggettiva, concreta, fatta di eventi tangibili, evidenti, il mondo del `fare' insomma - e dimensione spirituale dell'esistenza - eterea, intangibile ma tuttavia percepibile al di là dei cinque sensi, l'esperienza del `non fare' - che rischia però, se lasciata a se stessa, di esser percepita come non altrettanto concreta, dunque meno reale o, il che è peggio, di manifestarsi nell'aberrazione di un reale allucinatorio o visionario.
E' stato a lungo il tempo della contemplazione. Il gesto che oggi è richiesto è figlio della contemplazione stessa e non una sua negazione: è un concretizzarsi dell'esperienza mistica stessa.
E' libertà crescente, mai totalmente scevra da fatica, ma libertà di esserci, attivi ed in presenza.
Paragonato al ciclo dell'eroe, che Jung ha sapientemente descritto come metafora della nascita della coscienza e quindi dell'affermarsi dell'Io, che si distingue dialetticamente dall'informità dell'inconscio originario, potremmo dire che siamo nella fase in cui l'eroe, dopo aver combattuto le potenze inconsce ed aver affrontato le prove iniziatiche che l'incesto richiede, dopo aver sperimentato la morte ed averne superato la paura, avendo vissuto la propria rinascita sul piano più universale del sé, dopo aver dissolto le barriere che dividevano in maniera rigida inconscio e coscienza, femminile e maschile, essere e divenire, universale e particolare, torna nel mondo per testimoniare l'esperienza vissuta.
E la testimonianza, qualunque forma assuma, gesto o parola che sia, è sempre l'espressione di sé in una forma nuova, viva, che richiede attivazione concreta, e non consente alcun pigro ritrarsi.
Come esperienza specifica credo si tratti di superare un ulteriore freno all'esistenza che un'atavica pigrizia, una pigrizia cosmica, ancora proporrebbe tentandoci con un subdolo invito a ritrarsi quando invece è il momento di darsi: una tentazione demoniaca in forma di accidia o di avarizia energetica, mascherata di inattività contemplativa.
Nel lavoro di ricerca che insieme condividiamo, sta avvenendo un salto, da una modalità prevalentemente femminile ed accogliente, ad una modalità più dialettica, comprendente anche il maschile, attivo e discriminante.
Colgo l'impellenza di un'affermazione dell'Io - necessaria perché non più solo egoica - dilagante nel laboratorio, incarnata prevalentemente da compagni di percorso che non possono in alcun modo astenersi da ciò. Sento in tutto questo un passaggio importante, di crescita, che non può riduttivamente esser letta come vecchia dinamica oppositiva.
E' il ritorno del maschile la fase che stiamo attraversando, di un maschile che porta già in sé il femminile, un maschile accogliente, ma con la necessità penetrante di dire, di affermare, di sacrificare l'indeterminatezza dell'universale per pronunciare la parola che, pur consapevole di delimitare, necessariamente dichiara.
E' un dire - agire consapevole perché non più unilaterale né assolutizzante: è l'affermarsi di un polo dialettico che ha sempre amato guerreggiando e che oggi finalmente prova ad esserci amando.

Agnese Galotti


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