Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione G.E.A.
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Dicembre 2000 Pag. 8° Agnese Galotti

Agnese Galotti

 TEORIA 

UNO STRALCIO DI STORIA DELLA PSICOANALISI: DAL " NATURALISMO INDIVIDUALISTICO FREUDIANO " ALLA PSICOANALISI DIALETTICA.

Mentre per Freud il fondamento della psiche è la vita organica, per Jung il fondamento della psiche è la vita relazionale storico-sociale.

Nel concetto di relazione intersoggettiva, su cui si basa la nostra prassi psicoanalitica, nonché la riflessione teorica conseguente, non è esclusa né accantonata la natura biologica dell'umano: anzi resta evidente come sia proprio a partire da essa che tutto si svolge; possiamo dire che nella riflessione psicoanalitica la materia, dunque il lato biologico dell'essere, arriva a farsi consapevole di sé come coscienza di essere.
Anche quando non ne parliamo, non lo citiamo in causa direttamente sappiamo bene quanto sia il nostro stesso corpo a parlare nel nostro dire: è il corpo a formulare il pensiero ovvero il pensiero a dirsi nel corpo stesso.
Non è dunque separandola dal pensiero, che da essa stessa si è generato, che rendiamo giustizia alla materia, quale lato originariamente inconscio dell'essere, bensì nel riconoscerla come essa stessa pensiero, che via via va manifestandosi.
Ma tutto questo, come ben possiamo immaginare, non può certo essere il punto di partenza: è semmai quell'approdo raggiunto il quale possiamo ripercorrere la storia che ci ha condotto fin qua.
Freud, il primo che abbia dato all'analisi della psiche e delle sue dinamiche inconsce una prassi adeguata ed una teoria di riferimento, è partito da un contesto medico, scientifico; ha elaborato una teoria dinamica della psiche in cui il primato del dato biologico ha in qualche modo costretto l'osservazione stessa, entro limiti angusti, sacrificandone (non poteva fare altrimenti) la natura universale nonché spirituale.
Montefoschi non a caso parla di "naturalismo individualistico freudiano".
Egli ha indagato la materia prima e la psiche poi senza coglierle in sé, nel proprio stesso pensare e riflettere ed ha mantenuto così la barra divisoria, il tabù dell'incesto, che separa soggetto conoscente da oggetto conosciuto.
Nonostante Freud abbia dato origine alla propria riflessione teorica basandosi sulla propria coraggiosa autoanalisi (la psiche indaga se stessa) sembra non aver potuto cogliere, in quanto la stava agendo, la portata del cambiamento che la consustanzialità tra soggetto osservante ed oggetto osservato comporta dal punto di vista metodologico nonché epistemologico: l'atteggiamento resta in lui oggettivante, ovvero di scissione e di alienazione dell'oggetto osservato dal soggetto osservante, come del resto accadeva di regola anche negli altri ambiti della scienza.
Questa impossibilità di cogliere come l'oggetto osservato sia a sua volta soggetto osservante e viceversa sembra evidenziarsi tangibilmente nella postazione che i due interlocutori assumono nella stanza di consultazione: l'analista Freud si pone alle spalle dell'analizzando: lo può osservare dunque, senza esserne a sua volta osservato.
E' così elusa ogni reciprocità.
Del resto il suo affermare in ambito scientifico l'esistenza e lo studio di qualcosa di tanto poco tangibile quale è l'inconscio, era già un passo enorme, un evento di portata fortemente rivoluzionaria.
Un ulteriore elemento che noi oggi possiamo cogliere nel pensiero di Freud come atteggiamento pre-dialettico, ovvero di scissione tra due elementi che restano tra loro opposti, riguarda la scissione tra l'aspetto particolare che caratterizza l'individualità e l'aspetto universale che connota la socialità.
Egli si pone in un atteggiamento concettuale che lo porta a scindere in maniera clamorosa, la dimensione del singolo individuo umano dall'universalmente umano che è il contesto entro il quale soltanto ogni individualità è percepita, origina e trova senso ed esistenza.
L'individuo umano che egli indaga è oggettivato come altro dal contesto relazionale all'interno del quale egli stesso lo va conoscendo, nonché come altro dall'universalmente umano, di cui innegabilmente fa parte.
La teoria antropologica cui Freud fa riferimento, infatti, intende l'essere umano al di là (o meglio al di qua) del suo essere sociale.
Da qui il grande equivoco circa la socialità quale aspetto della realtà che l'individuo sembra dover "subire" come prezzo della sopravvivenza, anziché come aspetto fondante la sua stessa esistenza.
Tutto ciò che pertiene la relazione deve quindi, per Freud essere motivato da una necessità altra dalla relazione stessa:
ovvero la necessità di soddisfare un bisogno primario. Questo è l'aspetto che rende, in alcuni casi, assai macchinosa la struttura teorica freudiana.
La relazione, non essendo riconosciuta come un aspetto fondante la natura stessa dell'umano, è dunque vista sempre solo come strumentale all'appagamento di un bisogno biologicamente determinato: fame, sete, sonno, sesso,...
Quando indaga i fenomeni della relazione e dell'amore, di cui peraltro si occupa parecchio, Freud quindi li intende esclusivamente come pura manifestazione di eventi biologici. I complessi modi in cui si esplicano e si intrecciano le varie forme relazionali umane che possiamo osservare, non sono dunque che espressioni di un biologismo che solo motiva ogni espressione umana.
L'uomo sembra essere per Freud la sua biologicità, ad essa resta asservita la psiche, la cui esistenza non sembra caratterizzare l'umano in quanto tale.
E' evidente la distanza tra quello che era il suo concetto di riferimento circa l'essere umano ed il nostro oggi.
Tuttavia, leggendo con attenzione i suoi scritti, non è raro trovare interessanti contraddizioni, da Freud stesso sottolineate, vista l'apertura alla ricerca che lo ha sempre coraggiosamente accompagnato.
Per esempio nelle formulazioni del concetto di amore Freud sembra avvicinarsi più volte a contraddire la teoria libidica, che vede l'amore invariabilmente come manifestazione della pulsione sessuale, ma ogni volta la ritratta.
Come molti scienziati che hanno avuto un ruolo di precursori in qualche campo del conoscere, e che si sono trovati a combattere strenuamente per affermare una nuova visione, anche Freud ne è rimasto in qualche modo prigioniero: si è trovato costretto ad ancorarsi rigidamente al quadro concettuale che ad un certo punto aveva tracciato, attraverso la formulazione di due concetti fondanti la sua teoria stessa: il concetto di pulsione libidica ed il concetto di complesso edipico che ne caratterizza l'evoluzione.
Alla definizione che di essi dà, nel riconoscerli come base del comportamento umano, relazionalità compresa, Freud sarà fedele sempre, al prezzo della propria stessa libertà di pensiero.
Nei lunghi anni di professione e di ricerca molti aspetti delle sue teorizzazioni muteranno: di volta in volta cambierà per esempio il dualismo che caratterizza la dinamica delle pulsioni (pulsione sessuale e pulsioni dell'Io, pulsione sessuale rivolta all'Io e pulsione sessuale rivolta all'oggetto, pulsione di vita e pulsione di morte), ma nessuna sostanziale trasformazione sarà concessa alla natura biologico - chimica del concetto di libido come pulsione sessuale da cui tutto origina, ed alle rigide leggi del complesso edipico (inteso come desiderio di possedere sessualmente il genitore di sesso opposto e di distruggere il genitore antagonista)
che ne tutelerebbe l'evoluzione, sia ontogeneticamente che filogeneticamente.
Non a caso proprio su questo delicato aspetto si darà la rottura con Jung, il suo allievo più promettente: Freud criticherà assai duramente tutti coloro che osteggeranno la sua teoria e particolarmente aspro sarà nei confronti di chi, come Jung, mostrerà argomenti culturalmente validi per superarla.
Già gli era costata molto, sul piano della credibilità nel mondo scientifico di cui faceva parte, la prima correzione che aveva dovuto apportare alla propria teoria, quando dovette rettificare la teoria del trauma sessuale infantile rimosso come causa dell'insorgenza nevrotica nell'adulto.
La sua prima formulazione dell'eziologia delle nevrosi (isteria e nevrosi ossessiva in particolar modo) poneva infatti un'esperienza traumatica di natura sessuale, subita in età infantile, all'origine dei disturbi nevrotici.
Successivamente dovette ammettere che molto spesso si trattava invece di fantasie sessuali allucinate e confuse nella memoria come ricordi di eventi realmente accaduti e proiettati nella prima infanzia.
Non è raro trovare nelle sue riflessioni spunti che potrebbero aprire porte più ampie, accessi a zone trascendenti il riduttivismo iniziale, cui tuttavia Freud deve reagire in maniera assai determinata, pena l'incrinarsi dei cardini stessi su cui si fonda la sua teoria.
E infatti vedremo che tutte le volte che parlerà di amore, anche in senso lato, così come ne parlarono Platone e San Paolo (che egli cita, per esempio, in `Psicologia delle masse e analisi dell'Io'), Freud ne parlerà sempre in termini di libido quale originaria pulsione chimicamente caratterizzata, magari idealizzata o sublimata nella meta.
Non è la sessualità una delle manifestazioni dell'amore, ma l'amore idealizzato (così lo chiamerà più volte) una delle manifestazioni della onnicomprensiva pulsione sessuale.
Resta a noi cogliere quanto proprio il suo riduttivismo sia stato fondamentale come stimolo per l'evoluzione successiva, che ci permette oggi di accedere alla riflessione da un punto di visione sempre più elevato e comprendente sempre più aspetti dell'essere.
La distanza tra noi e Freud è segnata dal passaggio dall'atteggiamento oggettivante alla metodologia relazionale e dialettica nella quale noi oggi ci poniamo.
Nel contesto dialettico ogni fenomeno è assunto come espressione e momento di una totalità relazionale.
Tutto è relazione, compreso l'emergere di un fenomeno prettamente biologico, somatico.
Nell'atteggiamento di pensiero in cui ci poniamo nulla esula dalla relazione e quindi dalla dialettica tra due poli che vengono superati dall'emergere di quel terzo punto che li trascende e comprende entrambi, in ciò venendosi a formare la distanza riflessiva necessaria al superamento della stasi dualistica, altrimenti paralizzante.
S. Montefoschi traccia il contesto in cui questo salto di consapevolezza prende avvio a partire dal tentativo di rielaborare sul piano teorico una prassi, quella psicoanalitica, che è necessariamente dialettica in quanto è relazione tra l'uno e l'altro dei termini che via via si presentano: analista-analizzando, coscienza-inconscio, soggetto-oggetto, materia-pensiero, corpo-mente,...
Il passaggio dal modo immediato di rapportarsi a sé ed all'altro a quello mediato dalla presa di coscienza coincide con quel salto che consente all'uomo di farsi tale come soggetto: è il passaggio dalla immediatezza pulsionale alla mediazione simbolica che coincide con il processo di socializzazione.
E' proprio attraverso il processo di socializzazione - sostiene l'autrice - che l'uomo diviene tale, acquisendo la capacità di mediazione simbolica che il verbo, quale parola, pensiero rappresenta.
L'uomo quindi non è tale finché non si trova calato nell'universo relazionale, con il tu interiore ed empirico, nella relazione col quale si fa consapevole di sè.
Tutto ciò che viene prima è pre-umano, sopravvivenza animale e non realtà umana che è caratterizzata da tale consapevolezza.
Su questa centralità della relazione nell'esistenza umana si basa la prassi psicoanalitica che è relazione per eccellenza; tuttavia i fondamenti teorici della psicoanalisi, come abbiamo visto, si sono per lo più attenuti ad un "naturalismo individualistico", proprio del contesto medico-scientifico in cui è sorta, non ancora in grado di tener conto della prassi, che è già dialettica.
La psicoanalisi nasce nell'ambito della medicina, usa il metodo oggettivante (proprio delle scienze naturali).
La differenza rispetto alle altre scienze sta nell'oggetto: non più la materia osservata in laboratorio ma la psiche, osservata nella situazione di setting analitico.
Cambia l'oggetto (materia - psiche), cambia l'ambiente (laboratorio - setting analitico) ma non l'atteggiamento di indagine.
L'uso del pensiero oggettivante in psicoanalisi fa sì che vengano assunti come oggetti esistenti in sé, indipendentemente dal soggetto, i suoi stessi vissuti e quindi la psiche stessa, il che costituisce l'equivoco teorico e metodologico che stiamo cercando di focalizzare.
La nevrosi, la sofferenza psichica, si dà nel soggetto, come disturbo nel modo di concepire e pensare se stesso, quindi è inerente al rapportarsi a se stesso del soggetto, alla sua consapevolezza di sé, e non indipendente da ciò.
Il rifiuto del metodo oggettivante e l'assunzione del metodo dialettico porta con sè il passaggio della psicoanalisi dall'ambito delle scienze naturali a quello delle scienze storico-sociali.
L'oggetto della psicologia è allora riconosciuto nel contenuto mentale del soggetto che riflette su se medesimo e non più nel suo corpo o nella sua psiche intesi come oggetti altri.
Allora i vissuti di cui il soggetto che riflette su di sé prende coscienza sono i correlati affettivi dei rapporti sociali, per cui quel "se stesso" che l'uomo pone come oggetto di conoscenza è la sua dimensione relazionale, e quindi storico-sociale, che si dà oltre il confine della sua persona.
E' il concetto stesso di psiche che viene a cambiare: da correlato dinamico dello strato biologico prevalente, arriva qui a riferirsi ad una dimensione del reale specificamente umana, pertanto sociale e storica.
L'uomo diviene tale col nascere della psiche quale attività mediatrice della vita relazionale e sociale che si realizza attraverso la produzione simbolica: miti religioni, visioni del mondo che costituiscono il patrimonio archetipico dell'umanità.
Il modello stesso cui la teoria psicoanalitica fa riferimento nello spiegare i fenomeni psichici è da considerare come una produzione simbolica.
La concezione naturalistica di Freud esula dalla relazionalità come aspetto intrinseco alla natura umana ed arriva a postulare come naturale la contrapposizione tra interesse del singolo ed interesse della società, in questo avanzando inevitabilmente una visione pessimistica della vita.
Per Freud l'essere umano non è per natura un essere sociale e quindi non è nella sua natura la capacità di mediazione simbolica su cui la relazionalità sociale si basa.
In ciò la teoria freudiana è necessariamente repressiva della libertà dell'individuo al fine di salvaguardare la società che resta, nonostante tutto, totalmente altro dall'individuo stesso.
Montefoschi ipotizza che quel presunto interesse personale (contrapposto all'interesse collettivo), caratterizzato dal vissuto di bisognosità personale in cui si è spinti a porre l'identità, che crea l'atteggiamento egoriferito per eccellenza, definito dalla psicoanalisi "narcisismo primario", non sia naturalmente determinato ma sia invece un fatto storicamente determinato e relativo al sistema capitalistico.
Compito della psicoanalisi come prassi che consente all'uomo di diventare uomo, di imparare la mediazione simbolica, di riconoscersi soggetto e in quanto tale umano, consiste nello sciogliere il vincolo affettivo a quell'immagine di sé che la struttura sociale induce nell'uomo e contemporaneamente nel fondarne un'altra.
Uscire dalla bisognosità infantile ed accedere alla soggettività adulta: in ciò consiste il superamento della dinamica edipica.
Infatti rompendo con l'interdipendenza ed instaurando l'intersoggettività l'individuo impara a riconoscersi come lo riconosce l'altro del rapporto intersoggettivo: non più entro il limite del riferimento egoico ma nella dimensione relazionale della sua esistenza, che non ha a priori limiti spaziotemporali ma si allarga ad abbracciare l'universalmente umano, quindi il sociale, ed impara ad amare se stesso come l'altro da sé, ovvero come un essere umano.
La psicoanalisi come prassi mette dunque in questione il modello di rapporto dell'interdipendenza simbiotica, (cui corrisponde l'unica forma di relazione cui perviene quella natura umana cui Freud allude), all'interno del quale si produce la scissione tra identità individuale ed identità sociale dell'essere umano, e porta l'individuo, attraverso il recupero dei vissuti inconsci, a ritrovare l'essenza umana dei rapporti sociali, aprendosi alla dimensione universale che gli appartiene.
Da qui la radicale e rivoluzionaria trasformazione verso una nuova concezione antropologica.
Con la rottura di uno schema precedente, che relegava l'umano nei limiti di una visione biologica ed individualistica, si dà la reale infrazione di un tabù che aveva la funzione di mantenere uno stato sociale.
Montefoschi evidenzia come il salto più netto che possiamo tracciare all'interno del pensiero psicoanalitico nella sua teorizzazione, lo troviamo indubbiamente nel passaggio dalla concezione freudiana alla concezione junghiana:
"Infatti, mentre per Freud il fondamento della psiche è la vita organica, così che l'inconscio, al di là del personale, è l'Es fatto di pulsioni quali rappresentazioni di stimoli endosomatici di origine organica, per Jung il fondamento della psiche è la vita relazionale storico-sociale e l'inconscio, al di là del personale, è l'inconscio collettivo quale totalità dell'uomo nel suo divenire universale, costituito dagli archetipi che sono appunto i momenti del divenire psichico, come divenire sociale dell'uomo attraverso il processo di trasformazione della libido".
L'inconscio collettivo è il concetto infatti che contiene e naturalizza la dimensione storico-sociale presente nell'uomo: trascende l'Io ma si manifesta attraverso l'Io nel Sé quale espressione individuale dell'universalmente umano.
Il discorso di Jung non nega l'aspetto della immediatezza pulsionale (realtà pur sempre presente nell'uomo): la interpreta in modo non più ontologico ma relazionale; ciò che si presenta come immediatezza, pulsionalità, oggettualità, istintualità esprime quel modo dell'uomo di rapportarsi a se stesso che possiamo definire infantile (edipico): quello dell'adesione immediata ai vissuti, percepiti senza alcuna coerenza, continuità, finalità, storicità; da qui l'aspetto incoerente e polimorfo dell'Es di Freud.
Tale immediatezza appare come spontaneità e viene spesso intesa come "naturalità" ma si tratta di una naturalità che pertiene all'animale, al preumano, essendo l'umanità caratterizzata dalla capacità di mediazione che gli permette la riflessione e la relazionalità sociale.
L'essenza della psiche si colloca in ciò che si intende per "processo di umanizzazione" che si attua nella socialità.
L'essenza del metodo psicoanalitico, che consiste nel ristabilire la distanza riflessiva tra vissuto e coscienza dello stesso, attraverso cui l'uomo si fa uomo, sta nell'operare la trasformazione dell'uomo dalla dimensione naturale (animale, immediata pulsionale) a quella culturale (propriamente umana), che promuove a sua volta il passaggio dall'identità personale (egoriferimento) all'identità storico-sociale (dimensione universale).
In questo passaggio consiste l'infrazione di un tabù che segna finalmente l'uscita dalla dimensione edipica e quindi filiale e l'accesso alla dimensione di soggetto umano adulto.
L'oggetto ed il metodo della psicoanalisi si collocano dunque nella dimensione del farsi umana dell'umanità attraverso il processo di socializzazione, lo stesso vale per la dinamica psichica, sia nella sanità che nella patologia.
La dinamica psichica si dà nel conflitto tra la fantasia - desiderio di ritorno all'immediatezza pulsionale, cioè al di qua dell'umano (mito dell'Eden) e la necessità di procedere lungo la via della mediazione simbolica, in cui l'uomo si costituisce tale (mito dell'Eroe).
Questa dinamica conflittuale può darsi dialetticamente (e... e...) ed incalzare il processo di umanizzazione crescente (sanità, processo di individuazione come costante passaggio dall'uno all'altro dei due poli fino al salto riflessivo che ne supera la contrapposizione), o porsi in opposizione insanabile (o... o...) che arresta il divenire (patologia, fissità, arresto della dinamica in una conflittualità paralizzante).
Accettare la condizione umana significa accogliere e contenere la tensione del conflitto interiore che si fa passione per la soluzione, riconoscersi nella incompiutezza di chi è aperto a perenne divenire (dinamica psichica, appunto) e porre in tale incompiutezza l'identità e farne oggetto di amore.
Ma questo è altro dalla rassegnazione ad una concezione pessimistica dell'umana infelicità: è invece accoglienza profonda della condizione umana come una delle manifestazioni dell'essere nel suo perenne divenire, ed in quanto tale amabile pur nella sua contraddizione e nella sua imperfezione.
Permanere nella nostalgia dell'eden perduto, nel rimpianto di una dimensione statica ed aconflittuale è l'equivoco che crea sterile sofferenza.
Per causa di questo equivoco (in realtà l'uomo ha nostalgia dell'eden che, in quanto umano, non ha mai sperimentato) l'essere umano si arresta nella sua evoluzione ed indugia nell'Edipo, quale condizione infantile in cui non è ancora espressa nella forma matura ed adulta (genitale, direbbe Freud) la capacità dialettica di relazionarsi a sé ed all'altro da sè.

Agnese Galotti


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