Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione G.E.A.
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Settembre 2001 Pag. 3° Agnese Galotti


Agnese Galotti

 RICERCHE 

ESTASI E PANICO

"… maestri saranno per me i turbamenti dello spirito e i suoi squilibri. Più che il troppo perfetto 'saper-pensare' dei metafisici, sono le follie, le arretratezze, le allucinazioni, le estasi e le agonie, il 'non saper pensare più' il vero luogo di elezione in cui scoprire noi stessi." (H. Michaux)

E' frequente, in questi ultimi anni, che la consultazione psicologica sia motivata da sintomi relativi al panico. Il `popolo dei panici' sembra in crescita vertiginosa.
Pertanto mi sembra doveroso, accanto ad un'attenzione più strettamente clinica, tentare una lettura simbolica di tale sintomo in un'amplificazione del messaggio profondo che l'inconscio, attraverso quel preciso malessere, sta veicolando.
Ogni volta che l'inconscio si fa insistente e ripetitivo nella modalità di manifestazione - ed il sintomo nevrotico lo è in forma acuta ed urgente - denota una particolare sordità della coscienza, un irrigidimento che impedisce dialogo ed apertura tra coscienza ed inconscio e quindi reale trasformazione. Evidentemente si tratta di una sordità che riguarda non soltanto i singoli "panici" ma il sociale stesso in cui tale sintomo prolifera.
L'ipotesi più convincente sembra quella secondo cui il panico, in quanto derivazione dell'ansia o angoscia che dir si voglia, segnali a gran voce un problema di spazio interiore troppo angusto e quindi una necessità di spalancare le porte alla dimensione universale che evidentemente non è del tutto accolta e riconosciuta dal soggetto che ne soffre.
Si fa un gran parlare di nuove correnti spirituali o pseudo tali (new-age e mode varie) in termini `soft', che spesso si accordano e si confondono con tendenze commerciali e di costume.
Il panico invece, con la sua violenza ed impetuosità, non bada alla forma più o meno elegante: come un urlo disperato denuncia un bisogno inderogabile, urgente, di apertura interiore, di immensità. Insomma è radicale nel suo emergere, tanto quanto la tematica che presenta.
In questo senso trovo utile affiancarlo ad un'altra manifestazione, altrettanto radicale seppure forse meno eclatante, ovvero l'estasi, intesa come percezione improvvisa e gioiosa, di un'illimitata espansione di sé comprendente l'universo tutto.
Estasi e panico, contrariamente all'apparenza, presentano una comune natura originaria, relativa all'`andar fuori' (associabile anche alla follia) ovvero all'uscita, repentina ed imprevedibile, talvolta addirittura violenta, da una percezione nota ed ordinaria della vita e della realtà.
In entrambe le situazioni il soggetto fa esperienza di una dimensione insolita, eccezionale, al di là di qualsiasi riferimento che possa fungere da ancoraggio al conosciuto.
La grossa differenza sta nella tonalità emotiva registrata (gradevole/sgradevole) e nel conseguente giudizio (buono/cattivo) associato al senso di spiazzamento vissuto; resta abbastanza misterioso il sottile meccanismo che fa sì che il medesimo strappo nella trama ordinaria del quotidiano sia vissuto talora come vibrazione armonica con il tutto, talaltra come paura violenta, paralizzante.
Un'ipotesi può essere quella di ricondurre le due esperienze a due momenti di un medesimo fenomeno: l'irruzione del numinoso nella vita di un individuo può sconvolgere la percezione familiare, e la meraviglia può sconfinare in terrore se prevale in lui il giudizio negativo, il senso di pericolo e quindi la difesa, il rifiuto, la contrapposizione, rispetto alla curiosità, all'attrazione, e quindi all'affidamento profondo alla bontà di ciò che accade.
Sarebbe dunque il tacito giudizio negativo sul panico ad amplificarne l'effetto nefasto, più che l'episodio in sé.
Anche nell'esperienza dell'estasi si ha memoria, talvolta, di un momento di angoscia da perdita di riferimenti, data dalla rottura immediata del corso ordinario dei pensieri e dalla sensazione di essere catapultati in un `altrove'.
E' fondamentale allora il grado di accoglienza profonda che si ha nei confronti di un vissuto, come l'ansia, assolutamente umano, che diventa intollerabile quando si accompagna ad un tacito giudizio di patologia, di anormalità, che induce irrigidimento e rifiuto e, paradossalmente, proprio in questo modo, lo amplifica.
L'ansia, in effetti, può essere retta e contenuta, il che opera nel soggetto che ne fa esperienza un ampliamento dei confini, un farsi più accogliente e `capace', tanto da superare l'angustia stessa.
Non è tanto il panico a dover cambiare quanto l'atteggiamento di chi lo sperimenta.
Possiamo allora immaginare un processo che dal panico conduce all'estasi, passando attraverso una soglia assai delicata di apertura assolutamente nuova, oltre la quale il soffocamento lascia il posto ad un ben più ampio respiro.
Per cogliere questo passaggio è necessario differenziare due momenti distinti dell'esperienza: la percezione (turbamento, spiazzamento, paura, sorpresa, meraviglia, terrore,…) ed il giudizio (negativo!)
sulla percezione, che ne amplifica un aspetto (quello doloroso) coprendone completamente altri, (desiderio, curiosità,...).
E' possibile così verificare come anche nell'estasi - quale uscita liberatoria dallo stretto confine della propria coscienza ordinaria - ci sia un passaggio attraverso il terrifico, ciò che caratterizza il panico.
Nel panico allora, così come nell'ansia e nell'angoscia, spesso si cela un'esigenza, non riconosciuta come tale dal soggetto, di estasi (nel senso etimologico di `uscita da sé'), l'esigenza cioè di uscire da un'identità troppo stretta, da una percezione della vita troppo rigida, tipica di personalità con tendenza al controllo.
Nel suo aspetto di "paura dell'attacco di panico", pensiero ossessivo e costante, persistente tra una crisi e l'altra, si svela infatti un inconscio desiderio di reiterare quell'esperienza che, sebbene sia registrata sul piano della coscienza esclusivamente come terrifica e negativa, porta in sé anche qualcosa di anelato, seppure non ben identificato: ovvero il desiderio (inconscio) di uscire dalla rassicurante ma anche soffocante realtà "sotto controllo".
Sul piano profondo possiamo immaginare che nel caso del panico come in quello dell'estasi, sia in atto un richiamo alla dimensione universale in noi, che non può restare entro confini troppo stretti, per cui fa saltare riferimenti personalistici e chiede più ampio respiro, maggiore apertura: spazio infinito.
E' un richiamo alla nostra vera natura (universale) che può generare terrore nell'Io, che malsopporta di essere messo in discussione e relativizzato.
In questi termini possiamo individuare nel panico un forte segnale evolutivo, una richiesta di cambiamento che non può che portare, se accolta, ad un miglioramento della qualità della vita, conseguente ad una maggiore consapevolezza.
In questo senso la definizione in termini psicopatologici rischia, ancora una volta, di soffocare il messaggio peculiare che una parte di noi (il Sé) sta veicolando attraverso un disagio che segnala la necessità di procedere oltre.
La situazione paradossale di chi soffre di attacchi di panico sta nel suo essere, per natura, potenziale sperimentatore di estasi, ovvero di sentimento oceanico:
dunque qualcuno che non può accontentarsi (anche se lo vorrebbe tanto!) di una presunta `normalità' o percezione prevalentemente ordinaria di sé e del reale.
Come a dire che laddove c'è terreno evolutivo: o le risorse vengono realmente canalizzate e viene operato il cambiamento potenziale, oppure esse si ritorcono contro il soggetto nei termini di un disagio costante ed insopprimibile.
Quindi: o il soggetto `chiamato' fa il salto ed opera in sé l'espansione in lui necessaria, oppure resta condannato ad una angustia dolorosa ed irriducibile.


Agnese Galotti


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