Home Anno 13° N° 49 Pag. 3° Settembre 2004 Agnese Galotti


Agnese Galotti
 METODO 

GRUPPO E AGGRESSIVITÀ

Ci sono dei momenti nel gruppo analitico - come in ogni contesto umano relazionale - in cui si presenta la necessità di verificare quanto e soprattutto come possa essere affrontata l'energia aggressiva che abita ognuno dei partecipanti e il gruppo stesso.

E' quando vengono messe in atto una serie di manovre, più o meno consce, per verificarne la tenuta, per rispondere cioè alla tacita domanda: è il gruppo in primo luogo un contenitore sufficientemente capace e, in secondo luogo, un laboratorio alchemico in grado di trasformare gli elementi grezzi (emozioni) in energia sempre più raffinata (consapevolezza)?
Oppure esso tacitamente richiede a ciascuno di essere "salvato" dai partecipanti, ovvero che ciascuno lo preservi dalla propria aggressività, che lo protegga dai propri sentimenti sgradevoli, soprattutto dai più terrifici, che rischiano di restare così ancora una volta relegati in una zona privata, perlopiù nascosta e vissuta come vergognosa?
All'inizio del lavoro d'analisi il gruppo generalmente tende a rispondere affermativamente alla prima domanda, almeno come "dichiarazione d'intenti", ma quasi inevitabilmente tende ad agire come fosse vera la seconda. Ciò corrisponde ad una fisiologica necessità del gruppo stesso di creare un alveo accogliente e immediatamente sentito come sicuro e caldo.
La manifestazione dell'aggressività, della conflittualità tra parti contrapposte, soprattutto in un contesto gruppale, genera infatti un sentimento di paura tale che può diventare in alcuni casi paralizzante; per questo viene generalmente evitata o più spesso indirizzata dal gruppo verso realtà o entità ad esso esterne, "altre" dal gruppo stesso, (le persone, i contesti, le realtà esterne "su cui si parla") il che ne amplifica il senso di compattezza e solidità a spese, come vedremo, del senso di autenticità.
Il modo in cui viene vissuta, accolta e gestita l'aggressività nel gruppo (e del gruppo) è quindi un nodo cruciale che mette in evidenza il tipo di relazionalità in atto nonché il livello di autenticità e di condivisione possibile.
Ciascuno ha bisogno di capire quanto, nel contesto relazionale in cui è calato, permanga la necessità di restare in un personaggio, in un ruolo, quanto invece si trova finalmente di fronte all'opportunità di spogliarsi delle sovrastrutture per aprirsi alla possibilità di una trasformazione reale circa il modo di relazionarsi a sé, all'altro e dunque al mondo.
Ciò richiede un contenitore solido, essenziale: un contesto di cui ci si possa effettivamente fidare. E questo non può essere presente fin da subito: ci vuole tempo, pazienza, e tanto lavoro.
L'ipotesi che il gruppo impari a riconoscere, contenere l'aggressività e infine a trasformarla è ciò su cui si gioca il livello di "autenticità" possibile e quindi la reale possibilità di esplorazione di ciò che si è, sia come individui che come gruppo.
In uno dei gruppi Gea più recenti quello dell'aggressività è stato un tema affrontato _ a parole _ fin da subito, quasi ci fosse la necessità di accordarsi in proposito, esortandosi vicendevolmente a dirsi e rimandarsi fastidi e ombre; in realtà la sensazione più sottile era che se ne parlasse quasi per esorcizzarne la paura. Era come se interiormente ci si domandasse: che cosa potrebbe mai accadere se arrivasse qui tutta la mia aggressività?
Come potrei mai tollerare quella degli altri?
Il gruppo ha infatti grande paura dell'aggressività interna: teme di saltare, di esserne distrutto, frantumato, dissolto.
In quella fase iniziale, in cui il gruppo tendeva a rassicurarsi circa l'autenticità possibile e celava la paura che questo intento induceva, arrivò un sogno:
"In un capannone c'è una fucina, una donna volta le spalle al fuoco, mentre la sognatrice, un po' più distante, osserva la scena da una posizione un poco elevata. Vede che improvvisamente il fuoco avvampa e prende alle spalle la donna: essa prende fuoco ma sembra non curarsene. La sognatrice accorre verso la donna, che adesso è sua madre da giovane, per salvarla dal rogo: in realtà è sufficiente sfilarle di dosso il cappotto e gettarlo fuori per salvarle la vita." Fuoco come elemento trasformatore e purificatore potente (la fucina) che opera l'elaborazione del materiale originario in qualcosa di "digeribile" (dal crudo al cotto), assimilabile e quindi comprensibile; ma fuoco anche come elemento distruttore, capace di distruggere e incenerire.
La madre della sognatrice ha sempre attuato la strategia dell'evitamento del conflitto, ha sempre "voltato le spalle" al fuoco, sia nel suo aspetto terrifico (aggressività) e sia in quello trasformativo.
In quella fase in gruppo si "parlava di" rabbia e aggressività, la si raccontava al gruppo così come ciascuno la viveva in altri contesti. In qualche modo "davamo ancora le spalle" al fuoco ed alla sua potenza, ma era già annunciato che ne saremmo stati toccati direttamente di lì a poco.
Tuttavia era anche già intuita la presenza di un livello riflessivo (la sognatrice come testimone) che permette di vedere la dinamica e di intervenire mettendo in salvo l'essenziale (la madre come funzione accogliente). L'indicazione sembra essere: basta spogliarsi, togliersi di dosso le sovrastrutture (abiti, ruoli, identificazioni) per mettersi davvero vicendevolmente in salvo.
Numerose sono tuttavia le fasi attraverso cui il gruppo deve passare per elaborare questa dinamica nei suoi vari aspetti e ciascun gruppo ne vive l'esperienza con modalità differenti ed originali.
La fase successiva, più greve rispetto a quella appena descritta, è senz'altro quella in cui, più che parlarne, ci si trova ad "annusare" la rabbia che aleggia nel gruppo: quando le espressioni dei volti, le posture, il clima in generale veicolano quel tipo di emozione, quando le parole hanno sfumature taglienti, i toni suonano secchi o cupi.
Prima ancora di occuparsi di qualunque contenuto specifico, in quei momenti è di fondamentale importanza disporsi ad un ascolto profondo di ciò che "sta sotto" quel ribollire, non controreagire e neppure farsi distrarre dai contenuti più evidenti; tendere l'orecchio e focalizzarsi sull'esistenza delle emozioni sottostanti _ in genere un dolore profondo o una paura terrifica, che, nonostante la grande esigenza di venire a galla, cerca anche difensivamente di farsi ricacciare nell'inconscio.
Spesso sono incontri in cui si nominano vissuti di rifiuto verso il gruppo, il possibile non senso del lavoro, la voglia di smettere, di scappare. Più è rabbiosa la reazione più è intensa la dinamica dolorosa sottostante e, di conseguenza, maggiore è la portata della trasformazione potenziale.
In quei momenti è importante che ciascuno abbia ben presente la possibilità di fuggire, di andarsene, di interrompere il percorso, di ritirarsi (in queste fasi spesso accade che qualcuno effettivamente se ne vada: spesso, paradossalmente, non si tratta di chi è più coinvolto dalla dinamica in corso bensì di chi ne è rimasto più periferico); solo così può emergere in tutta la sua dignità e intensità la forza che sta dietro quel travaglio, che sta tentando, con tutte le sue energie, di attivare una trasformazione che restituisce libertà di esserci in una crescente autenticità.
E' quello solitamente un momento particolarmente importante, una pietra miliare del percorso, in cui si giocano le sorti della vita futura del gruppo e soprattutto la sua possibilità di costituirsi ambiente sano, in cui può esserci autenticità, in cui ciascuno sente di poterci essere a pieno, con tutte le sue parti, perché sperimenta che la propria ombra non distrugge nè viene rifiutata dal gruppo.
Questo passaggio consente a ciascuno, gradualmente e a più tornate, di liberarsi sempre un po' di più del "cappotto", di quelle porzioni _ piccole o grandi _ di "falso Sé" che hanno a che fare con le dinamiche di interdipendenza: quelle che ci inchiodano alla paura del giudizio altrui e ci fanno sentire costretti, nostro malgrado, ad accondiscendere alle (presunte o reali) aspettative altrui.
Quello che si cerca di creare insieme diventa sempre più un ambiente relazionale sufficientemente sano e capace di accogliere le parti sane e meno sane di ciascuno, senza dover "far fuori" e rifiutare nulla.
Questo, seppure molto gradualmente, si estende al sociale reale e concreto di ciascuno, gettando piccoli semi circa la possibilità di accogliere e trasformare le dinamiche di aggressività e violenza anziché espellerle in un "fuori" che amplifica, al contrario, alterità, paranoia e guerra.
A.G.


Agnese Galotti


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