Home Anno 12° N° 53 Pag. 3° Settembre 2005 Agnese Galotti


Agnese Galotti
 METODO 

LA FATICA DEL DIALOGO

Entro in dialogo con te, con voi, non per il piacere di chiacchierare, ma perché ho bisogno di voi. Non solo perché ho da insegnare qualcosa, ma per imparare, perché non ho ancora la verità

...Questa è la dichiarazione esistenziale del mio essere creatura, del mio limite... Il rifiuto del dialogo è il peccato di molti uomini di ogni tradizione religiosa che non accettano l'intero orizzonte delle esperienze umane e pertanto affermano di non aver bisogno degli altri.(R.Panikkar)
Si parla ormai in ogni ambito, culturale e sociale, di "Dialogo" ma quanta fatica ancora sembriamo fare, noi umani, colti e civilizzati, per coglierne il reale significato e, a maggior ragione, per metterci in condizioni di attuarlo, sempre un po' di più, nella nostra quotidianità!
L'atteggiamento di apertura all'altro, di sincera fiducia reciproca, cui il dialogo rimanda, è ancora molto spesso considerato una sorta di optional nel contesto delle relazioni umane: un "di più" rispetto a cui, a seconda dei contesti, ci si vanta, in quanto segno di "superiorità morale" o, al contrario, ci si vergogna, in quanto segno di debolezza!
Sembra mancare alla radice qualcosa (forse l'abitudine a fidarsi l'uno dell'altro?) perché la dimensione di dialogo possa essere considerata la "norma", accanto a tutte le eccezioni possibili.
Non sembra esserci veramente familiarità né confidenza con questo tipo di atteggiamento.
Ma allora, viene da chiedersi, qual è la "normalità" delle relazioni cui siamo abituati, qual è lo scenario relazionale più comune, di cui siamo _ spesso inconsapevolmente _ testimoni e attori?
Basta guardarsi un po' attorno, osservare gli eventi più eclatanti a livello locale e mondiale per vedere, come sotto una lente di ingrandimento, le medesime "pecche" che possiamo facilmente riscontrare nel piccolo delle nostre relazioni quotidiane.
La contrapposizione tra schieramenti ideologici, tra ragioni apparentemente inconciliabili; la sordità reciproca e la relativa incapacità di vedersi, di considerarsi vicendevolmente come "altro soggetto", altro centro di iniziativa; la tendenza ad una chiusura difensiva ciascuno nel proprio giudizio a priori; la tendenza a svilire o a negare ciò che semplicemente, dell'altro, non conosciamo; l'attaccamento ad immagini rigide di sé e dell'altro e l'imprigionamento reciproco in ruoli gerarchicamente ordinati; la presunta superiorità del non cambiare la propria idea rispetto al lasciarsi trasformare dall'incontro con l'altro;… questo e molto altro è quanto sembra prevalere oggi nell'immediatezza dell'incontro tra umani.
E, non a caso, ci sentiamo sempre più soli e disperati.
Aprirsi al dialogo, rendersi disponibili a conoscere intimamente la realtà dell'altro, è ancora troppo spesso considerato più come una "buona azione" che non come una necessità, come l'unica risposta adeguata ad un bisogno umano essenziale.
Per cui ci si illude ancora di poter scegliere altrimenti.
Invece, che ce ne rendiamo conto o no, in rapporto con l'altro ci siamo comunque, a tutti i livelli e abbiamo profondamente bisogno di imparare qualcosa da lui, soprattutto su noi stessi: di scoprire, attraverso di lui, i nostri punti ciechi, le nostre chiusure, i nostri "a priori" inconsci _ aspetti di noi che solo il vederci attraverso gli occhi dell'altro può aiutarci a consapevolizzare.
Abbiamo bisogno di imparare a disporci nei confronti altrui nell'atteggiamento più sano e realisticamente più proficuo, che è appunto quello del dialogo, della fiducia, dell'apertura.
Ma che cosa è poi fondamentalmente il dialogo?
Quali sono le sue peculiarità?
Una definizione che sento semplice e chiara l'ho trovata ancora in Panikkar, in un suo testo in realtà assai complesso ed approfondito - "Mito, Fede ed Ermeneutica" edizioni Jaca Book 2000 - in cui definisce il dialogo come "lo scambio di opinioni, l'incontro tra credenze su posizioni di parità nella fiducia reciproca, nell'assoluta franchezza e senza motivi reconditi". In questi termini si tratta dell'atteggiamento che rende possibile la coesistenza tra umani, che garantisce il pluralismo, la democrazia, il rispetto reciproco.
Quindi dovrebbe essere, per logica, l'elemento che fonda qualsiasi realtà sociale che si riconosca umana, mentre, paradossalmente, è una realtà tanto enunciata quanto poco praticata.
Non a caso Panikkar considera il dialogo come elemento indispensabile alla ricerca della verità e all'attuazione della giustizia.
E chi davvero oggi può dirsi sinceramente e concretamente impegnato, nel "suo piccolo", nella ricerca di questi grandi valori?
Che cosa ci impedisce di cogliere questa evidenza e di "praticare", fin da piccoli, questa disposizione alla fiducia e al rispetto reciproco?
Penso a due equivoci fondamentali, entrambi legati alla concezione individualistica dell'essere umano (rispetto ad una concezione relazionale o dialogica): da un lato la fantasia di onnipotenza basata sull'illusione di poter fare a meno dell'altro (degli altri), nella infantile concezione di sé ( o del proprio gruppo) come unico e vero centro dell'universo; dall'altro la dimensione edipica delle relazioni, dove ci si percepisce sì in rapporto, ma sempre all'interno di una struttura gerarchica che tende a salvaguardare se stessa, dove quindi la relazione tra l'uno e l'altro non può mai essere sperimentata davvero come libera, gratuita, in una parità di fondo tra soggetti che, pur diversi, si riconoscono medesimo diritto di esistenza e di espressione.
Sono due equivoci strettamente intrecciati tra loro, che sembrano supportare, nella filosofia di fondo, molte delle relazioni sociali in cui siamo immersi, e che finiscono più facilmente per manifestarsi come relazioni basate sul potere che non sul dialogo.
Nel contesto di queste relazioni troviamo giustificata, in forma più o meno mascherata , la tendenza ad "usare gli altri", considerati come mero strumento per l'affermazione o la realizzazione di sé, dei propri bisogni e desideri, nella mancanza totale _ e questo è il prezzo _ di qualsiasi reciprocità.
Ciò che viene grossolanamente sacrificato, in questa concezione del rapporto, è la bellezza dello scambio, del dono gratuito, della reciprocità, è il piacere dell'incontro al di là di qualsiasi doverismo, ciò che caratterizza la relazione d'amore, a differenza della relazione di potere.
Non è forse questo che la società dei consumi ha sacrificato, in nome di gratificazioni apparentemente sempre più soddisfacenti ed eclatanti, perdendo per strada necessità umane ben più essenziali e prioritarie?
Il dialogo allora va recuperato come valore essenziale della relazione tra umani, come luogo in cui avviene ancora il dono reciproco, la reciproca e tangibile testimonianza della propria esistenza, del proprio esserci in virtù di un "volerci essere", in un ritrovato piano di libertà, al di là di qualsiasi alienante "dover essere".


Agnese Galotti


 HOME     TOP   
Tutti i diritti sui testi qui consultabili
sono di esclusiva proprieta' dell'Associazione G.E.A. e dei rispettivi Autori.
Per qualsiasi utilizzo, anche non commerciale,
si prega prima di contattarci:

Associazione GEA
GENOVA - Via Palestro 19/8 - Tel. 339 5407999