Home Anno 16° N° 58 Pag. 12° Aprile 2007 Andrea Sangiacomo


Andrea Sangiacomo
 RECENSIONI 

LA SFIDA DI PARMENIDE.

Quello che segue è uno stralcio dell'ottimo lavoro di Andrea Sangiacomo attorno al pensiero di Parmenide che, sempreverde, dal fondo dei secoli ancora oggi ci sfida a pensare in modo nuovo. (*)

Tramonto e Rinascenza

L’uomo è qualcosa «che è» in quanto, al pari di tutto il resto, appartiene all’Intero delle molteplici differenze che animano l’Essere. Se il suo esserci consiste nel suo essere in quanto differenza, ovvero solo per altro e non in se stesso, allora egli, dal punto di vista ontologico, non soltanto non può porsi come un soggetto che distingue innanzi a sé il mondo degli oggetti pronti a farsi da lui dominare, ma l’esistenza dell’altro agisce sulla sua medesima esistenza e la condiziona in modo essenziale: io sarò in funzione di quest’altro da cui differisco e da cui mi distinguo, tanto che, ogni modificazione che subisce l’alterità si riflette su ciò che io sono. Ovvero: per ogni modifica che l’uomo tenta di apportare a ciò che lo circonda, egli deve essere consapevole che, nella stessa misura e nella stessa maniera, modificherà inevitabilmente se stesso.

Quando dunque l’uomo tenta di agire sulla realtà, plasmandola secondo i suoi fini, egli agisce, contestualmente, su sé medesimo, modificandosi in modo proporzionale e corrispondente. Non si dà mai, cioè, la possibilità di un agire unilaterale, in cui l’oggetto dell’azione subisca passivamente. Al contrario, poiché nessuna cosa esiste in sé, ma solo per altro, ogni alterazione o modifica riguarda sempre tutti i termini, in modo più o meno marcato, più o meno diretto, certamente, ma comunque senza esclusioni, giacché tutti esistono in quanto raccolti insieme, resi un Tutto, e quindi reciprocamente connessi tanto che ogni alterazione non è mai solo l’alterazione di una certa parte limitata dell’insieme, ma riguarda sempre la totalità e quindi si riflette necessariamente su chi la opera.

Ebbene, incamminarsi su simili considerazioni porta inevitabilmente a rinunciare a qualsiasi pretesa di dominio, di possesso o di potere sulla realtà che ci circonda: l’uomo non solo non ha il diritto, ma non ha nemmeno la possibilità ontologica di dominare imponendosi sull’altro, giacché dominio, signoria, possesso, implicando la distinzione tra il dominatore e il dominato, e il potere unilaterale che il primo esercita sul secondo, sono categorie estranee all’Essere, dunque chi vi presta fede finisce semplicemente con l’illudersi che sia ciò «che non è».

Esempio emblematico è proprio l’idea nietzschiana di «volontà di potenza»: l’uomo arriva ad agire e modificare così tanto la realtà, si convince a tal punto del suo potere, che la sua stessa coscienza finisce per diventare coscienza del suo essere come «volontà di potenza», non perché questa ne sia l’eterna natura, quanto piuttosto perché ne è diventata la realtà. Attraverso la sua azione sull’altro, cioè, non si attua solo una modificazione quanto a contenuto, ma proprio una modifica nell’essenza di chi opera.

E se finalmente arriviamo a vedere in questa reciproca implicazione e coappartenenza di tutto a tutto, l’autentica natura delle cose, allora, nel momento in cui tenteremo di definire il principio fondamentale di un’autentica etica dell’azione, non potremmo che indicare il motto stoico del sequere naturam.

Ciò viene a significare sia il seguire l’alterità, rispetto a cui si pone l’esser-diverso che io sono, sia seguire questa mia diversità che appunto mi fa essere in quanto distinto. Quindi io riconosco tutta la dignità che spetta a ciò che è altro da me, rinunciando ad annullarla nel tentativo di ridurla a mia immagine e somiglianza, giacché questo sarebbe nient’altro che un modo per annullare la differenza su cui si regge l’esserci di entrambi. Rinuncio pure a ogni contrasto con l’altro, o ogni opposizione ad esso, rinuncio ad ogni lotta e ad ogni tentativo di supremazia, cessando di considerare come nemico ciò che mi è diverso, si tratti di uomini o di forze della natura, giacché riconosco pure che è su questa medesima diversità che io posso fondare il mio essere me stesso, ma pure cessando di ritenere che sia necessario difendere la mia diversità dall’altro, poiché essa è tale proprio per l’altro.

In proposito si può osservare come, nel caso in cui io mi senta minacciato dalla violenza di qualcuno che, come che sia, tenta di sopraffarmi e di piegarmi, imponendomi di uniformarmi a lui, non sarà agendo con la sua medesima violenza che io difenderò davvero me stesso, ma perseverando nel mio essere altro rispetto a una simile violenza, quindi continuando a rifiutarla, continuando a restar fedele a me stesso, costi quel che costi, giacché non v’è nulla di più importante di questo, anzi, solo questa è la cosa davvero importante.

E, forse, possiamo magari addirittura comprendere qualcosa di quella scandalosa affermazione che ci testimoniano i Vangeli:

«amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello non rifiutare la tunica. Dà a chiunque ti chiede; e chi prende del tuo non riprenderlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono i prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande»1.

Senza voler ora qui discutere quanto una simile proposta possa o non possa essere condivisa o praticata, vediamo però bene come in queste parole operi proprio, e ad un livello massimo, il principio che abbiamo appena esposto. Se infatti io sono un giusto o aspiro ad esserlo, sono tale in quanto agisco diversamente da come agisce l’uomo ingiusto, il peccatore. Quindi se gli usa violenza, ama chi gli conviene e presta a chi può ripagarlo, io dovrò agire diversamente, giacché se alla violenza del peccatore rispondo con la faida dell’occhio per occhio, io stesso mi rendo identico a lui, io stesso divento peccatore e perdo in questa identità la mia giustizia, o la mia aspirazione ad essa.

Arrivare a concepire se stessi essenzialmente come un esser-diversi è, in fondo, un modo per articolare quella «morale della distinzione o morale da signori» che già Nietzsche ci aveva suggerito, ma non nel senso di un sentimento di superiorità sprezzante, giacché la distinzione che qui viene a configurarsi, la si voglia o meno considerare un tratto di nobiltà, fonda se medesima sulla necessità ontologica dell’esistenza dell’altro da sé. Se v’è una nobiltà in chi è davvero cosciente di questo suo esser-diverso e quindi distinto, allora questa si trova nella sua consapevolezza di come ogni autentica cura di sé non possa prescindere e, anzi, implichi necessariamente, una cura per l’altro, che, ricordiamo, è tutto ciò che non è identico a me, quindi non solo quello che potrebbe dirsi il mio prossimo, ma tutta la natura nel suo insieme. Senza, con ciò, che questa particolare cura, debba esser dettata da astratti ideali filantropici, umanitaristici, o egualitari, in quanto viene a fondarsi unicamente sulla semplice coscienza di cosa autenticamente io sia e di cosa significhi l’Essere.

Pure è necessario ricordare: “diverso” non significa “separato” e “altro” non significa “assoluto”, nel senso proprio di “sciolto da ogni legame”. Noi, al contrario, riconosciamo l’alterità proprio perché siamo legati ad essa in modo essenziale, anzi, fondiamo il nostro stesso esserci su tale legame. E ogni dire circa la differenza e il differenziarsi viene dopo, e si fonda necessariamente, su questo preliminare riconoscimento del nostro essere in quanto stare legati insieme, ovvero dell’Essere in quanto legame che tiene unite le differenze, vale a dire, in definitiva, su un’autentica comprensione dell’Essere stesso.

E richiamiamo almeno qui un tratto centrale su cui prima non abbiamo avuto modo di soffermarci: il concetto di diverso non è identico al concetto di opposto, anzi, l’opposizione è un caso limite particolare della diversità, in cui i due termini sono uno contrario dell’altro, ovvero non hanno nulla in comune se non il loro reciproco negarsi. Ma se tutte le opposizioni rientrano nella diversità, la diversità eccede invece di molto il semplice concetto di opposizione, sicchè, quando diciamo che la realtà è l’Intero delle differenze, non diciamo che queste differenze sono tutte necessariamente qualcosa di reciprocamente opponentesi. All’interno di questo Intero vi sono sì degli opposti, ma non tutto è opposto a tutto, al contrario, si daranno tutti i tipi e tutte le sfumature di differenza, compresa quindi anche la somiglianza, che è un altro caso limite di questa, in quanto i simili pure sono tali in quanto minimamente differenziati. Parliamo dunque di differenza poiché è questo l’elemento necessario e sufficiente a caratterizzare l’individualità finita, ma, ciò non toglie che la differenza possa dirsi in molti modi, compresa appunto la somiglianza, sicchè se non è vero che tutti gli uomini, in quanto individui, sono uguali nel senso di identici, è pur vero che possono essere invece simili, per quanto differenziati.

L’equilibrio che occorrerà allora portare in luce è quello che pone sui due piatti della bilancia della Giustizia me sul primo e l’altro-da-me sul secondo: giusto è proprio l’equipararsi di questi termini quando vengono e sanno fronteggiarsi alla pari, nel senso che sono entrambi comprensenti e attivamente coinvolti in un medesimo relazionarsi.

Ingiusto è decidere di sacrificare ciò che mi differenza, in modo da poter diventare identico a qualcosa che mi è diverso, ingiusto è annullare la differenza su cui io reggo il mio esser-me, ma altrettanto ingiusto è il mio tentativo di annullare la differenza con cui l’altro da me si distingue.

Sia nell’identità assoluta, sia nell’assoluta separazione, io smetto di essere me stesso: o perché divento identico a ciò che è non-me e quindi, entrambi, diventiamo qualcosa d’altro, o perché tento di annullare l’alterità in funzione della quale si pone l’autonomia del mio stesso io. Anche storicamente, infatti, ogni fusione di popoli o elementi diversi, ha portato ad una trasformazione più o meno radicale di entrambi nel loro diventare insieme un qualcosa di ancora diverso, piuttosto che al brutale annullamento di uno solo dei due.

Il sequere naturam è allora proprio il tentativo di perseguire questo difficile equilibrio, tentando nel medesimo tempo di non annullarsi nei due estremi dell’identità o della separazione, ovvero: essere se stessi sapendo che ciò è possibile solo nella coscienza di ciò che si è e di ciò che non si è, nella coscienza cioè della propria essenza e della propria differenza. Reggersi in essere è quindi questo distinguersi e tornare, differire e restare legati in modo necessario e vitale al diverso, essere diversi e fuggire la solitudine di tale diversità ricercando il simile, sapendo che nulla può essere totalmente identico a me tanto quanto nulla può essermi totalmente estraneo, reggersi in bilico su questo ripido crinale per cui tutto è legato a tutto, tutto differisce da tutto, ma niente può stare senza tutto il resto.

Se con ciò possiamo vedere allora in modo sufficientemente chiaro quale sia il cardine fondamentale di un agire che sappia mantenersi sulla via del Giorno, possiamo allora cogliere pienamente come ogni «volontà di potenza», facendo dell’uomo colui che agisce proprio per trasformare l’alterità a immagine dei suoi fini e, quindi, in definitiva di se stesso, sia la forma più radicale di azione contro natura.

Ma nel momento in cui l’Occidente ha scelto di seguire la lusinga della potenza e la sua civiltà s’è fatta una civiltà della tecnica, la sua stessa coscienza è mutata essenzialmente e la prassi contro natura della sua azione ha portato il senso originario dell’Essere non solo a ottundersi ma a veder sistematicamente rimossa la capacità stessa della sua comprensione.

(*)Il libro, pubblicato da "Il Prato editore" nel gennaio 2007, viene presentato in Genova Sabato 5 Maggio alle ore 16 presso il Foyer del Teatro della Corte Lambruschini, p.zza Borgo Pila 40.


Andrea Sangiacomo


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