Home Anno 16° N° 60 Pag. 6° Dicembre 2007 Andrea Sangiacomo


Andrea Sangiacomo
 TEORIA 

SUL MONDO

E' il nostro un tempo inquietante. E l'inquietudine pretende che ci si occupi di lei.
( Andrea Sangiacomo)

Anche alla filosofia è rivolto questo pressante invito: essere attuale, esser concreta, farsi filosofia del presente. Fare filosofia, oggi, deve essere necessariamente un pensare al mondo che ci circonda. E' quasi un luogo comune, infatti, ricordare che troppo spesso il filosofare è finito per inventarsi un mondo suo, astratto, perso in qualche altrove, quasi un giocattolo del pensiero.
Ma è il nostro un tempo che non può più permettersi di giocare: bisogna guardare al mondo che abbiamo intorno, si deve prestar attenzione a questo mondo, e a nessun'altro.
E' comune e giustificata l'insofferenza per discorsi che paiono guardar lontano, perdendo così di vista ciò che è "sotto gli occhi di tutti". Se la filosofia vuol avere ancora un ruolo deve saperselo guadagnare nello spazio della nostra attualità, interessandosi ai problemi che qui e ora ci tormentano. Si dice che l'essenza del filosofare sia la sua funzione critica: non già e non più pretendere di dettar legge o addirittura nominare l'essenza delle cose, ma piuttosto corrodere e smascherare le storture del presente, del reale. E non già per correggerle: il filosofare, dacché non si ritiene più il luogo della Verità, ma, al contrario, il luogo in cui si mostra l'impossibilità di ogni Verità, ebbene il filosofare allora sembrerebbe non poter far altro che esibire le contraddizioni per testimoniare che il mondo stesso, per primo, è contraddittorio e quindi bisogna abitarlo così, imparando a stare nella contraddizione.
Questa posizione è per lo più condivisa dal comune sentire. Ma, se è lecito alla filosofia volgere su di sé il suo presunto "spirito critico", non potrà sfuggire come, in tutto ciò, la domanda che resta inevasa riguarda proprio quel mondo a cui così sovente ci si richiama e a cui si chiede di giurar fedeltà. Certo, il senso comune a questo punto inizia già a scrollare le spalle, ripetendo insofferente che il mondo è ciò che tutti abbiamo "sotto gli occhi", è la cosa più ovvia, la più immediata: l'intero delle cose che ci circondano.
V'è però uno strano vizio in questa ovvietà: mettere in secondo piano e considerare quasi come fosse "un mondo a parte" quello dei pensieri. Va infatti ricordato che il mondo comprende anche i pensieri degli uomini, e non solo i loro giorni e le loro pene. E che gli uomini vivano immediatamente i loro giorni e le loro pene, che siano in qualcosa come "un mondo" è esso stesso un pensiero.
Ce lo ricordava già Kant: il mondo è un'ideale della ragione, vale a dire: un pensiero, o, meglio, un modo di pensare la totalità delle cose. E dire che il mondo è essenzialmente pensiero, un modo di pensare l'intero delle cose che sono e in cui siamo, non è certo una inutile astrazione: dacché siamo uomini, l'agire è determinato essenzialmente dal modo in cui è pensato sia chi agisce, sia ciò su cui si agisce, sia ciò con cui si agisce. Il pensiero pratico, oggi tanto invocato, resta pur sempre pensiero, e la condizione di possibilità di ogni pratica resta pur sempre quello che Heidegger chiamava l'essere-nel-mondo.
Ma se il mondo è un modo di pensare qualcosa come "la realtà", e se pure il pensare intrattiene una relazione decisiva con l'agire, allora se ne deve concludere che l'agire è determinato in modo decisivo dal mondo che gli sta dietro, essendo questo lo spazio e lo scenario di ogni prassi.

Si chiede alla filosofia di interessarsi al "mondo d'oggi", quel "mondo" di cui parlano incessantemente i notiziari e che pare sempre più mostrare il suo volto inquietante. Non si deve però restar delusi se la filosofia, quando prenda davvero a interessarsi a questo mondo, lo faccia non con lo spirito dei media, cercando di ridurlo a "fatti", cifre e "informazioni", quanto piuttosto iniziando a portar l'attenzione sul mondo in quanto mondo, ossia inteso nel suo significato profondo come orizzonte di pensiero. Ne viene che se noi davvero abbiamo un mondo, varrà la pena chiedersi come sia nato, quale ne sia il senso, quale l'essenza.
Ed è un errore comune sottovalutare la potenza e la precocità della filosofia, giacché questa nacque proprio da una simile domanda. Tanto che vien da chiedersi se non sia per caso il nostro mondo il figlio e l'erede designato del filosofare stesso. E, in tal senso, vale forse la pena concentrare l'attenzione su una voce particolarmente significativa che, oltre che alle radici del pensiero filosofico, abita ancor di più alle radici di quello che oggi passa sotto il nome di "Occidente": si tratta di Platone.

Che cos'è ciò che è sempre e non ha generazione? E che cos'è ciò che si genera perennemente e non è mai essere? Il primo è ciò che è concepibile con l'intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre nelle medesime condizioni. Il secondo, al contrario, è ciò che è opinabile mediante la percezione sensoriale irrazionale, perché si genera e perisce, e non è mai pienamente essere. Inoltre, ogni cosa che si genera, di necessità viene generata da qualche causa. [...] E quando l'Artefice di qualsivoglia cosa, guardando sempre a ciò che è allo stesso modo e servendosi come di esemplare ne porta in atto l'Idea e la potenza, è necessario che, in questo modo, riesca tutta quanta bella; quella cosa, invece, che l'Artefice porta in atto servendosi di un esemplare generato, non sarà bella. [...] Ma se questo mondo è bello e l'Artefice è buono, è evidente che Egli ha guardato all'esemplare eterno. [...] Se, pertanto, l'Universo è stato generato così, fu realizzato dall'Artefice guardando a ciò che si comprende con la ragione e con l'intelligenza e che è sempre allo stesso modo. [...] Infatti, [il] Dio, volendo che tutte le cose fossero buone, e che nulla, nella misura del possibile fosse cattivo, prendendo quanto era visibile e che non stava in quiete, ma si muoveva confusamente e disordinatamente, lo portò dal disordine all'ordine, giudicando questo totalmente migliore di quello1.

Così parla Timeo iniziando il suo grande discorso sulla cosmogonia: la nascita del cosmos, ossia la nascita del cosmos, dell'ordine che tiene insieme tutte le cose, il modo in cui tutte le cose stanno insieme, cioè il mondo appunto nel senso che sopra dicevamo.
E' questo un mito che certo tutti conoscono, anche se forse spesso lo conoscono meglio di quanto non credano: c'è un Demiurgos, che guardando al modello di "ciò che è sempre allo stesso modo", modella qualcosa che invece "si muoveva confusamente e disordinatamente", imponendogli la forma dell'eterno.
Qui, dunque, il cosmos, è la creazione di un Artefice che impone la forma immutabile dell'eterno a qualcosa che per sua natura è l'assoluto diveniente. Il mondo, il cosmos, nasce dall'opera formatrice di un Dio che impone la linea chiusa di un disegno sempre identico sopra quella materia informe e inafferrabile che di per sé è libera da ogni forma, sciolta da ogni catena, ignara di ogni ordine. La chora, il ricettacolo primordiale, è il presupposto, la materia del mondo forgiato dal Demiurgo, la sua sostanza. Questa materia è il simbolo dell'assolutamente irriducibile a ogni fissità: l'ordine razionale dell'intelligibilità, la conclusione propria di ogni cosa finita e perfetta in sé, sono tutti tratti che non appartengono alla chora, ma che le vengono imposti dall'operare divino.

Scrive Platone:

a proposito di quello che sempre vediamo trasformarsi ora in un modo e ora in un altro, come ad esempio il fuoco, non si deve dire "questo" è fuoco, ma "tale" è il fuoco ogni volta [...] e così nessun'altra di quelle cose che noi indichiamo come se avessero una qualche stabilità, quando usiamo le parole "questo" e "codesto", e crediamo di indicare una data cosa. Infatti, tali cose sfuggono e non sostengono la denominazione di "questo" e di "codesto" e di "in questo modo", e ogni altra che le indichi come stabili. Non bisogna chiamare così ciascuna di queste cose singole, ma bisogna denominare in questo modo ciò che è sempre tale e passa identico in ciascuna cosa e in tutte. [...] E' necessario che sia al di là di tutte le forme ciò che deve ricevere in sé tutti i generi. [...] A ciò che deve ricevere molte volte e bene in ogni parte di sé le immagini di tutti gli esseri eterni conviene essere per sua natura al di là di tutte le forme2.

Solo dell'Idea, che è sempre identica a sé, immobile nell'eterno, si può dire "questo": l'idea, anzi, è l'essenza del questo, dell'esser riconoscibile come un che di isolabile dal resto e assumibile in sé, il poter essere identificato univocamente come una data cosa e solo quella, per sempre chiusa e circoscritta nella sua identità. L'essenza dell'eterno è proprio in questa chiusura: l'eterno è tutto dato tutto insieme e non lascia nulla fuori di sé, l'essenza di un eterno è tutta concentrata in un punto, in un questo, e nient'altro se ne può aggiungere. Esser qualcosa è poter esser sé, avere il potere di non dover diventare altro, di poter essere se stessi a prescindere da ogni altra realtà: essere significa, per Platone, essere-un-questo, e ciò compete in primo luogo all'essere che sommamente è, cioè quello delle Idee, giacché per diritto gli compete di non uscire mai da sè.

E il mondo nasce, allora, come l'imposizione di una tale eterna identità a ciò che di sua natura si offre come il totalmente altro da essa: imposizione dell'ordine al caos, imposizione della stabilità a ciò che è fluido, imposizione di mura che sanciscano una fine per ciò che fugge all'infinito. Il mondo si fonda su questo magma inafferrabile e irriducibile rispetto a ogni esser-questo a cui pure un dio impone la forma, l'eidos, l'Idea, il confine che ne ritaglia le cose del mondo. La creazione del mondo da parte del Demiurgo consiste dunque nell'imporre i limiti eterni e inviolabili delle forme dell'Essere a ciò che di per sé non ha limiti, né forma, né strutture. Il mondo è il compromesso ove l'infinito viene rinchiuso nei confini disegnati dalle cose, sbriciolato in una pluralità di enti condannati a oscillare tra l'Essere e il non-essere, giacché nati dall'unione di ciò che sempre sta in sé con ciò che invece non conosce riposo né quiete. Il mondo nasce così dall'isolamento, entro il continuum originario della chora, delle forme ideali: per attuare la violenza di questo isolamento occorre la potenza di un dio, un Demiurgos.

E se l'essere è concepito nella forma ieratica dell'eidos finito una volta per sempre, allora certo, ciò che sfugge a questa forma, ciò che la trascende, ciò che tenta di uscirne, non può che muoversi dal e verso il non-essere. Se il divenire nasce dall'irriducibilità della chora all'eidos, allora il divenire stesso non potrà che essere un passaggio radicale e assoluto dall'Essere al nulla. Pensare il divenire come un passaggio dall'essere al nulla, pensare che le cose possano essere evocate dal niente e nel niente riportate, è la condizione di possibilità per pensare qualcosa come la potenza del nostro agire e del nostro fare: di un mondo di eterni, infatti, l'uomo non potrebbe essere signore, ma oggi l'uomo è signore del mondo, dunque ciò è possibile perché il nostro mondo è ancora quello di Platone.

La radice di tale condizione stava e sta ancora proprio nel pensare l'Essere come un questo, un disegno chiuso e finito che ritaglia forme sulla chora primordiale. E il niente non è che l'eccedenza che di tale materia non si fa confinare nell'eidos eterno, la trascendenza dell'infinito. Pensare che la cosa divenga dal niente e nel niente ritorni è quindi il modo più rigoroso per pensare la cosa stessa come isolata da ogni altra, giacché posta in bilico tra il suo non esser stata e il suo non esser più. Il senso dell'isolamento e della solitudine è quindi ciò che abita l'idea platonica dell'eterno: la stasi ieratica di Ilio chiusa nelle sue solide mura, al di fuori delle quali non resta che morte. Anche dell'eterno, infatti, è giusto dire che non abbia nulla prima e nulla dopo, ossia che da sempre sconti eternamente la solitudine del suo essere solo e in sé concluso: finito.

E noi, che mondo abitiamo davvero? Non pensiamo forse le cose come entità per sé sciolte e separate, indipendenti, che si giustappongono nello spazio e nel tempo, emergendo e dissolvendosi in niente? Ogni cosa cui è dato essere se ne va raminga e sola su un sentiero da sempre interrotto e sospeso tra il niente che era e il niente che sarà. E questo niente è quella che vien chiamata la "libertà", che qui vale come il poter prescindere dall'altro per essere sé, il poter essere se stessi da soli, prima e dopo di tutti, senza ponti necessari, limitando le relazioni a rapporti accidentali, che, come tutte le cose, si danno, ma potrebbero non darsi, ossia sono, ma solo quando sono, e poi non ne è più niente.

Ma il mondo è un modo di pensare. La domanda cruciale è quindi questa: fino a che punto questo modo di pensare, di cui Platone fu campione, è legittimo? Anzi, fino a che punto è davvero un pensare e non è piuttosto un suicidio del pensiero? Pensiamo davvero qualcosa quando pensiamo che le cose siano in sé, sole abbandonate al loro essere, in attesa della rapina del niente? E se è su questo principio che dobbiamo fondare la nostra potenza, cosa succederebbe di questa potenza se infine si mostrasse l'assurda follia della legge che la sostiene? Non si evocherebbe forse un senso ancora inaudito per ogni agire, per ogni fare, per ogni operare? Non incomincerebbe a intravedersi un nuovo mondo, forse ancora mai pensato, ma da sempre in attesa, forse ancora inesplorato, ma in cui le cose sanno essere libere, non di essere sole, quanto piuttosto di essere infinite e infinitamente più di quanto abbiamo sempre creduto?

La filosofia ha il dovere di fornire risposte a questi interrogativi. Ma con ciò si pone pure all'opera per portare al suo tramonto il mondo in cui ha abitato ed abita la stessa Civiltà Occidentale. Tale tramonto, tuttavia, non ha nulla di apocalittico. Si tratta, in fondo, di raccogliere la sfida che già venticinque secoli or sono Parmenide ci pose. Rispondere oggi a questa sfida non ci fa cantori, con Verlaine, di un "impero alla fine della decadenza", ma ci porta piuttosto verso la Rinascenza.

1 Platone, Timeo, 28A-30B, trad. it., in Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, pp. 1361-2.
2 Ivi, 49D-51A, pp. 1376-7.


Andrea Sangiacomo


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