Home Anno 17° N° 61 Pag. 1° Luglio 2008 Agnese Galotti


Agnese Galotti
 TEORIA 

SENZA MEMORIA E SENZA DESIDERIO

Uno spazio vuoto nella mente del terapeuta

Senza memoria e senza desiderio

 

 

“Senza memoria e senza desiderio” – con l’aggiunta ancora più radicale, se possibile, di “e senza comprensione” – è il monito che Bion rivolge ai colleghi psicoanalisti per orientarli ad assumere l’atteggiamento che egli ritiene essere quello “corretto” durante il lavoro in seduta.

Cioè bisognerebbe, una volta “riconosciuto” il paziente nella sua identità anagrafica, dimenticare ogni altro dato relativo a lui, al rapporto con lui, a quanto già sperimentato fin là nel percorso analitico condiviso, per cercare un’apertura mentale totale verso quella che possiamo indicare come l’essenza di quella persona e l’ignoto relativo a quell’incontro.

Inoltre bisognerebbe prendere distanza da qualsiasi desiderio, sia nei confronti del paziente (che cambi, che guarisca, che stia meglio,…) sia rispetto a sé e alla propria situazione contingente (desiderio che finisca la seduta, desiderio di andare finalmente a mangiare, desiderio dell’agognato riposo, delle vacanze,…)

Può suonare come una provocazione (e sicuramente almeno in parte lo è), tuttavia non si tratta tanto di un atteggiamento eccentrico e un po’ strambo, quanto di una proposta piuttosto “radicale” – e anche un po’ assoluta, e in quanto tale da “prendere con le pinze” – che vale la pena focalizzare per capire quanto il lavoro psicoanalitico possa (ma forse sarebbe meglio dire, debba) essere profondamente trasformativo, quanto possa incidere cioè sull’atteggiamento profondo dell’analizzando, operandovi delle “evoluzioni” ma, in prima battuta, debba incidere su quello dell’analista.

 

Propongo in questo contesto una tale riflessione, pur essendo Bion uno psicoanalista, perché ritengo possa essere stimolo  fecondo di riflessioni per chiunque lavori in ambito terapeutico in genere, e particolarmente per chi si trova calato in relazione terapeutica con persone che soffrono disagi psichici anche molto gravi, ovvero con una certa “assenza di pensiero” lucido e di capacità riflessiva.

Non a caso Bion lavorò a lungo con pazienti psicotici gravi, persone con cui il dialogo non era certo fluente né particolarmente gratificante.

In queste situazioni la relazione può risultare spesso estremamente faticosa e frustrante, al punto da indurre “fughe mentali” inconsce che, alla lunga, finiscono per risultare più “faticose” di quanto possa essere il tentativo di “farsene qualcosa di utile per sé”, ovvero di cogliere l’occasione potenzialmente trasformativa presente, in nuce, in quel particolare impatto relazionale.

Laddove prevale il senso di ripetizione sterile, più o meno alleviato da varie strategie di “fuga”, resta il peso di una staticità paralizzante, forse rassicurante per alcuni aspetti, ma in genere assai pesante e mortifera, mentre laddove ci si avventura alla ricerca di un qualche “senso nuovo”, mettendo in bilancio l’incontro con il “conturbante”, con ciò che ci turba, ci destabilizza, è più probabile che qualche cambiamento trasformativo accada, se non nel paziente almeno nel terapeuta.

 

Ma che cosa significa porsi in seduta “senza memoria e senza desiderio”?

 

Il riferimento alla memoria e al desiderio è in prima battuta riferimento ad una dimensione temporale:

- memoria è riferito al passato (già accaduto o già conosciuto e quindi che può essere ricordato)

- desiderio è riferito al futuro (ciò verso cui ci si orienta o si fantastica, ciò che si desidera accada o si cerca di indurre).

 

In quanto tali, secondo Bion, hanno a che fare con delle “fughe inconsce”, sono cioè forme di distorsione dell’attenzione che allontanano da ciò che “sta accadendo ora, nel momento presente”, il che rischia pertanto di non essere colto né tanto meno consapevolizzato.

 

Fare a meno di memoria e desiderio, quindi, sembra finalizzato a recuperare l’attimo presente,  il qui e ora, il “momento presente assoluto”, come lo chiamerebbe Eckhart, l’atteggiamento proprio di “presenza mentale”, come lo chiamerebbe T.N.H., instaurato il quale diviene possibile prendere distanza da proiezioni mentali, sia nel passato che nel futuro, liberarsi da “causalismi” e “finalismi”, spesso inconsapevoli, per farsi, come si dice, presenti a se stessi – obiettivo base di consapevolezza e di contatto con il Sè.

 

Per realizzare tale presenza, per divenire il più possibile consapevoli di “ciò che è” e “di ciò che si è” qui e ora, sembra dunque rendersi necessario passare – paradossalmente – per l’assenza:
abbiamo bisogno di farci capaci di tollerare l’assenza, il vuoto, l’insaturo.

 

In effetti Presenza ed Assenza, Essere e Nulla, così come tutti le grandi coppie di opposti, sono termini solo relativamente contrari: in un’ottica dialettica (o dialogica)  si rivelano piuttosto consustanziali, ovvero rimandano ad una medesima realtà e ad una sostanziale conjunctio oppositorum.

Presenza-Assenza quindi, come ponte, elemento di unione ovvero come “soglia” tra il tempo presente, l’attimo fuggente, ed il tempo infinito, ovvero il non-tempo.

 

Quel “senza” apre al concetto di “assenza” su cui vogliamo riflettere, che, diversamente da quello di “mancanza” (più emotiva: se qualcosa ci “manca” è probabile che  avremmo preferito invece ci fosse, dunque rimanda a qualcosa di “desiderabile”) sembra avere una connotazione più “oggettiva” (prendere atto di ciò che “non c’è”, fare a meno di illusori surrogati) il che sembra fare più esplicito riferimento al vuoto, al nulla, al non essere, al non esserci.

 

“Ogni seduta a cui lo psicoanalista prende parte – scrive Bion – non deve avere nessuna storia e nessun futuro... L’unica cosa importante in ogni seduta è l’ignoto.
Non si deve permettere a niente di distrarre dall’intuizione di esso...
In ogni seduta ha luogo un’evoluzione. Dal buio e dall’informe evolve qualcosa.”

 

In che modo cioè l’“assenza” avrebbe a che fare con l’atteggiamento del terapeuta in rapporto al paziente all’interno del setting?

 

In effetti mentre è più immediatamente evidente la necessità di un atteggiamento di tipo “razionale”, connesso al lavoro terapeutico, un atteggiamento lucido, di “studio”, che permette di “pensare” a ciò che accade col paziente, (per cui, sia durante la seduta, sia soprattutto dopo, “a freddo”, si valuta, si contestualizza, si storicizza, si riflette, si fanno collegamenti, associazioni e ipotesi sugli elementi e i dati emersi)

è forse meno scontata la necessità di un atteggiamento ad esso complementare, più “sfocato”, meno lucido, (quello cui si riferisce il monito di Bion), ovvero quell’ “assetto mentale” dell’analista, che ha a che fare con il “vuoto”, con la possibilità di reggere l’“assenza” di chiarezza, di certezze, di idee,… un atteggiamento che sa “sostare nel buio”, nell’incertezza, nella sospensione finché ce ne sia bisogno.

 

Da qui l’importanza dell’incontro con Bion, l’autore che in ambito psicoanalitico ha messo in luce, forse in maniera prioritaria  rispetto ad altri, questa necessità, che ha egli stesso definito “mistica”, nell’assetto mentale dell’analista, qualcosa che ha direttamente a che fare con ciò Freud aveva nominato “attenzione fluttuante”, la capacità di non legare l’attenzione a nulla in particolare per lasciarla libera di sintonizzarsi di volta in volta con ciò che sta vibrando.

 

Bion non era un ingenuo: sapeva da un lato quanto sia impossibile raggiungere una totale assenza di riferimenti mentali (il vuoto meditativo, accade forse per brevi attimi, ma non è uno stato durevole né determinabile “a comando”), ma sapeva anche quanto le nostre menti siano sovraccariche di “dati” e condizionate da essi, e conosceva la nostra tendenza ad “allucinare” (seguendo il principio di piacere) piuttosto che ad “osservare” (con sufficiente e sano distacco).

 

L’analista deve diventare infinito grazie alla sospensione della memoria, del desiderio e della comprensione.    

E ancora:

“Mi sembra che questa procedura si avvicini allo stato che Freud descrisse in una lettera a Lou Andreas-Salomé del 25 maggio 1916:

 “ So di essermi artificialmente accecato mentre lavoro, allo scopo di concentrare tutta la luce sull’unico passaggio buio.”

Nella mia esperienza – continua Bion – questa procedura rende possibile l’intuizione di una “evoluzione” nel presente e pone le fondamenta per le “evoluzioni” future. Con quanta più fermezza si fa questo, tanto meno lo psicoanalista dovrà preoccuparsi di ricordare.”

 

Tuttavia, a differenza di Freud, Bion non manca di mettere in guardia i colleghi analisti cui si rivolge, sulla pericolosità di tale disciplina, che sul piano emotivo può scatenare sentimenti catastrofici che si avvicinano al terrore, in quanto “tale soppressione sconvolge l’esperienza fondata sui sensi, che costituisce la realtà familiare all’individuo”.

 

Quindi si tratta di uscire da una percezione “familiare”, solita, rassicurante, quella dei 5 sensi, per aprirsi ad un altro tipo di percezione, più insolita e potenzialmente sconcertante, che ha più a che fare con l’intuizione, con un salto di visione, con domande che restano aperte e non si aspettano e non pretendono risposte esaustive.

 

In questo si apre la strada ad una dimensione che ha a che fare con il “mistico” inteso come ciò di cui non si può parlare, in quanto può solo essere sperimentato.

Ciò che vale per l’esperienza del sacro, vale dunque per la psicoanalisi, come per l’atto creativo, l’atto poetico, come per tutto ciò che è realmente trasformativo e sovrapersonale.

 

In modo analogo, seppure con sfumature differenti, in filosofia Husserl parlava di “epochè”, una forma di  sospensione del giudizio ovvero di ciò che già sappiamo, quindi il “pre-giudizio”.

In contesto fenomenologico, infatti, si tratta di in un atteggiamento che “mira a sospendere il giudizio sulle cose, in modo da permettere ai fenomeni che giungono alla coscienza di essere considerati senza alcuna visione preconcetta come se li si considerasse per la prima volta”.

 

Si tratta di imparare a reggere una sorta di “assenza” (di conoscenza, di chiarezza, di risposte,…)
che, proprio perché richiede pazienza e solidità interiore, risulta essere sostrato fondamentale di ciò che possiamo individuare come “presenza”.

 

Bion invita dunque al necessario sviluppo di una sorta di Capacità Negativa.

Il termine è preso in prestito da Keats (e non a caso attinge da un poeta!) che parla a proposito di Shakespeare come di qualcuno che aveva “la capacità di stare nella incertezza, nei misteri, nei dubbi, senza qualsiasi tentativo irritabile di cercare fatti e ragioni.”

Questa capacità tollera la decostruzione del già-saputo per trovarsi di fronte al “non-sapere” (o non-sapere ancora) e sostarvi fino a quando spontaneamente si manifestino nuove possibilità di senso, fino allora insospettabili.

E questo apre spazi nuovi, in quanto: “l’incapacità di tollerare uno spazio vuoto limita la quantità di spazio disponibile”.

La capacità negativa dunque consente di prestare attenzione ad aspetti e a situazioni che altrimenti resterebbero trascurati.

Spesso c’è più da indagare su ciò che “viene taciuto” o liquidato troppo in fretta come già fin troppo ovvio, sulla zona che tende a restare in ombra, nell’oscurità, su ciò che resta in forma di enigma, ancora senza risposta.

 

Questa Capacità Negativa potenzia quell’agire particolare, che nasce dal vuoto, dalla perdita di senso, di ordine, e proprio per questo ha la potenzialità di generare “nuovi mondi possibili.”

 

Il riferimento è ad una sorta di “creatività” che nasce dalla capacità di stare “produttivamente” nel disordine, nella mancanza, nell’insaturo.

 

“Tra i seven servants del nostro cercare, individuiamo sei servitori onesti (chi, come, quando, dove, cosa e perché) e un servo che sospende il loro agire. Il settimo servo è la capacità negativa, la capacità di mantenersi nell’incertezza nonostante le certezze raggiunte, il permanere il più a lungo possibile in uno stato mentale insaturo e polisenso (dreamlike) [come in sogno] prima di riemergerne verso la realtà e la ragione.”

 

Senza nulla togliere all’importanza fondamentale della capacità di pensare in una maniera lucida e razionale, semplicemente si riconosce che non è sufficiente: è necessario mantenere un buon contatto con l’aspetto creativo, con l’intuizione, con il funzionamento della parte destra del cervello.

 

Pare così che l’obiettivo di raggiungere una vera “presenza”, (essere presenti, nel qui ed ora, dunque consapevoli) richieda, inevitabilmente, di imparare a tollerare il vuoto, l’“assenza”, il “non sapere già”.

 

Si tratta di trovare come conciliare due o più atteggiamenti apparentemente opposti ma più probabilmente complementari, che qui proviamo a delineare e descrivere.

 

Tuttavia non si può sceglierne uno ed eliminare l’altro: come scrive Brecht in

Santa Giovanna dei macelli:

Uomo, due sono le anime
che nel petto chiuse alberghi!
Non voler sceglierne una,
tutt’e due portarle devi!
Resta in lotta con te stesso!
Sdoppia in te le forze tue!
L’anima alta,
l’anima bassa,
l’anima pura,
l’anima impura,
tientele tutt’e due!

 

In effetti il lavoro psicoanalitico avviene su più piani contemporaneamente e, quando tutto funziona, tende a promuovere trasformazioni profonde (non solo razionali) nel modo d’essere della persona, nel suo rapporto con sé, col mondo, con la vita.

Ma il meccanismo, la regia, la “catena causale” di tali eventuali cambiamenti non è in genere descrivibile razionalmente né rintracciabile in maniera chiara e definita: come tutto ciò che coinvolge livelli inconsci sfugge al controllo della mente razionale che vorrebbe ricostruirne i passaggi ed individuarne il funzionamento.

Accade che ci si coinvolga nel lavoro di presa di coscienza dei propri meccanismi mentali al fine di ampliare la propria consapevolezza, che ci si sforzi, si rimanga delusi, ci si riprenda, si provi ancora, si regga la confusione,….

Poi, ad un certo punto, quando va bene, semplicemente “ci si accorge”, si prende atto, che qualcosa è cambiato, che un’evoluzione è avvenuta.

Ma in genere resta oscuro “cosa sia successo”, e  soprattutto “come”.

Questo perché coesistono più livelli psichici che interagiscono e si intersecano tra loro in maniera complessa.

 

Ne individuiamo in linea generale due:

- C’è un livello di funzionamento mentale che possiamo cercare di descrivere perché è riconducibile a principi, a modelli, a schemi almeno in parte razionali e per questo individuabili e spiegabili.

E’ dove avviene la “conoscenza di qualcosa” (Bion lo chiama “K”, Knowledge).

- C’è un livello più profondo, che comprende anche la dimensione cosiddetta inconscia, il cui funzionamento riusciamo talvolta ad “intuire”, ma mai completamente a conoscere né a spiegare, in cui avvengono le trasformazioni più essenziali (Bion lo chiama “O”, non meglio specificato)

Non si può conoscere O, si può solo essere O. (“Essere all’unisono con O”)

A questo livello il centro di gravità si sposta dalla Conoscenza all’Essere.

 

Il primo livello è quello, per esempio, che ci induce a ricondurre ogni esperienza, ogni percezione attuale (per esempio l’incontro con una persona) a quanto già sperimentato, già percepito e dunque in qualche modo già conosciuto e ricordato.

E’ un tipo di funzionamento che ci aiuta a “familiarizzare” con ciò che ci sta venendo incontro, (l’altro)
a ridurne l’immediata estraneità, (l’alterità) e ci aiuta ad “ordinare”, a catalogare mentalmente il nuovo “dato” utilizzando l’esperienza, ciò che già “sappiamo”: di noi stessi, dell’altro, del mondo, della vita,…

E’ un momento importantissimo del processo di conoscenza, che in parte avviene in maniera automatica ed inevitabile, in parte invece può essere indotto come operazione mentale più elaborata: di studio, ricerca, riflessione e approfondimento del “nuovo dato esperienziale”.

 

Il limite di questo modo di “funzionare” tuttavia è che, riconducendo il “tutto” al “già noto” si impedisce di cogliere l’elemento realmente “sconosciuto”, il “nuovo” che sta avanzando, il quale rischia, se non si apre anche un altro atteggiamento mentale, di essere “abortito per troppa conoscenza”.

 

Questo “altro atteggiamento” rimanda al secondo livello.

 

Il secondo livello, più profondo, comprende la dimensione dell’inconscio (il non conosciuto per eccellenza) e riguarda la “totalità” della persona, la sua essenza, il nucleo di “ciò che è”: un livello di cui poco “sappiamo” in quanto possiamo solo “esserlo”. E’ il livello in cui avvengono (quando avvengono) le trasformazioni più profonde e più “essenziali”, quelle meno spiegabili.

Questo livello Bion lo ha chiamato “O”, simbolo non meglio specificato, designato graficamenteda un tondo vuoto, volutamente lasciato insaturo, la cui “rotondità” induce associazioni al cerchio, al mandala, al tutto, ma anche al numero zero, al vuoto, al nulla.

Una citazione di Laotse, nel Tao Te King, è riferita al Tao, quindi all’Assoluto, al Tutto, ma può tranquillamente adattarsi anche allo Zero, al Nulla:

 

...Lo guardi e non lo vedi

lo ascolti e non lo senti

ma se lo adoperi è inesauribile…

Lo Zero, infatti, usato a volte come sinonimo di Niente, è in realtà un numero speciale, ricco di ambivalenze e sfumature variegate, che merita un’attenzione particolare.
E’ quell’anomala cifra, apparentemente innocua, che nasconde invece poteri insospettati: collocato come discrimine tra i numeri positivi (+) e quelli negativi (–), amplifica il valore delle altre cifre se le accompagna a destra (10000… verso l’infinitamente grande), e le riduce con altrettanta potenza se sta alla loro sinistra (0,00001… verso l’infinitamente piccolo).

 

Indicato da alcuni come “la cifra del nulla e dell’infinito”, è infatti, un numero che ci porta oltre la matematica, verso concetti universali (Nulla e Infinito).

 

La storia dello Zero è “una tipica storia mediterranea, quella di una migrazione di idee e di un contagio culturale”, attraverso cui si sono incontrate, scontrate, mescolate e confuse “titaniche visioni del mondo”.

La sua storia è curiosa e fa riflettere sull’“Horror Vacui” di cui pare soffra particolarmente la nostra cultura occidentale che, si racconta, vi avrebbe opposto strenua resistenza.

 

Zero proviene dall’India (e sicuramente non è un caso), quando gli indiani recuperano un simbolo, inventato migliaia di anni prima, che rappresenta l’assenza dei numeri, e lo chiamano sunya (niente).

Pare che il simbolo grafico (“O”) derivi dalla traccia, lasciata sul terreno, una volta tolto l’oggetto che rappresentava un numero (il numero che non c’è più).

 

Successivamente il nuovo numero viene rapidamente fatto proprio dagli Arabi che lo diffondono in Medio Oriente e in tutta la parte meridionale del bacino mediterraneo.

Gli Arabi non si impadroniscono solo della cifra, ma anche dell’idea che sta dietro il numero: 0 rappresenta il niente. E loro lo ribattezzano sifr, che, come il sunya degli indiani, significa appunto, niente o vuoto. 

 

Ritroviamo il medesimo etimo nell’inglese cipher (che porta in sé il doppio significato:
indica sia la cifra, il simbolo, e sia il vuoto, il nulla).

 

Mentre in latino con il matematico Leonardo Fibonacci lo zero diventa zephirum (un soffio di vento, qualcosa di impercettibile), da cui deriva infine il nostro “Zero”.

 

Quando giunge a Ovest attraverso i mercanti arabi, verso il XII secolo, il nulla è già ridotto in cifra (perché da noi l’arabo sifr non significa più niente, ma diventa la base etimologica di cifra e le cifre vanno da 0 a 9).

E’ così che la cifra del niente, cioè lo zero, arriva finalmente alle porte dell’Europa, che però si spaventa e ne accoglie solo il valore matematico, ma non il significato simbolico, quello di  “nulla”.

Infatti qui il niente fa davvero paura: minaccia le fondamenta stesse della cristianità, che, se da un lato non tollera l’esistenza del nulla, dall’altro ne ha bisogno, nella misura in cui pretende che Dio abbia creato il mondo “dal nulla”.

Così grandi filosofi e teologi si cimentano nell’eterno dilemma sulla esistenza o inesistenza del nulla, finendo per mostrarlo spesso sotto una luce quasi diabolica (il nulla è spesso associato al male, in quanto assenza di divinità).

 

Quindi, se “l’impatto matematico” dello zero è arrivato in Europa abbastanza presto (XIII sec.), ciò che “vi sta appeso”, ovvero il suo significare “il nulla” ha subìto intralci e filtri, per motivi prevalentemente teologici e filosofici.

Pare che a tale significato si sia arrivati solo grazie all’influsso della mistica ebraica medievale, la Kabbala, che riesce, come la mistica sa fare, a riunire in sé gli opposti:

Nel palazzo del nulla risiede il tutto”.

 

Concludiamo con una poesia di Rodari, che ironizza in maniera simpatica sulla sorprendente potenza dello Zero, che da nulla valere…. può arrivare a valere assai!

 

Il trionfo dello zero

 

di Gianni Rodari

C’era una volta
un povero Zero
tondo come un’o,
tanto buono ma però
contava proprio zero
e nessuno lo voleva in compagnia
per non buttarsi via.
Una volta, per caso,
trovò il numero Uno
di cattivo umore perché
non riusciva a contare
fino a tre.
Vedendolo così nero
il piccolo Zero
si fece coraggio,
sulla sua macchina
gli offerse un passaggio,
e schiacciò l’acceleratore,
fiero assai dell’onore
di avere a bordo
un simile personaggio.
 D’un tratto chi si vede
fermo sul marciapiede?
Il Signor Tre che si leva
il cappello
e fa un inchino
fino al tombino...
e poi, per Giove,
il Sette, l’Otto, il Nove
che fanno lo stesso.
Ma cosa era successo?
Che l’Uno e lo Zero
uno qua, l’altro là,
formavano un gran Dieci:
nientemeno, un’autorità!
Da quel giorno lo Zero
fu molto rispettato
anzi da tutti i numeri
ricercato e corteggiato:
gli cedevano la destra
con zelo e premura.
di tenerlo a sinistra
avevano paura,
lo invitavano a cena,
gli pagavano il cinema,
per il piccolo Zero
fu la felicità.

 

 

Bibiliografia:

 

- W.R. Bion – “Attenzione e interpretazione”  Ed. Armando 1973

- W.R. Bion – “Cogitations” Ed. Armando 1996

- G. Di Chiara, C. Neri – “Psicoanalisi futura” Ed. Borla 1993

- M. Eigen – “Mistica e psicoanalisi” Ed. Astrolabio 2000

- AA.VV. – “Zero e infinito” Ed. Cuen 1999

- M. Eckhart – “La via del distacco”  Ed. Mondadori 2002

- Thich Nhat Hanh – “Il miracolo della presenza mentale” Ed. Ubaldini 1992

- S. Freni – “La dimensione mistica nell’esperienza psicoanalitica” PSYCHOMEDIA

  Telematic Review


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