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Agnese Galotti
 TEORIA 

L'ARTETERAPIA TRA ESPERIENZA ESTETICA E CURA.

Perseguire l'arte della soggettività.
L'indispensabile lavoro del terapeuta su se stesso.

Convegno Vicenza Ottobre 08

Ogni professione ha i suoi strumenti peculiari, che il professionista deve avere a disposizione, mantenere in buono stato e soprattutto saper utilizzare con una certa dimestichezza.

E’ bene distinguere quelli che sono gli “strumenti assolutamente essenziali” da quelli che possono essere considerati “accessori” o secondari, per potersi “attrezzare” nella maniera più adeguata e funzionale.

 

Per quanto riguarda la psicoterapia (o “le” psicoterapie, visto che ve ne sono di vario genere e forma), lo strumento principale è la relazione.

Sia nei setting in cui viene usata la parola soltanto, sia in quelli in cui c’è un medium (sia esso artistico, corporeo o altro) mi pare possiamo tranquillamente affermare che in ogni caso, se si tratta di “cura d’anime”, ovvero se ci si occupa di “terapia” relativa alla sfera di “psiche” la centralità della relazione tra due persone (o più, nel caso di setting familiari, gruppali) sia lo strumento cardine.

[Anche quando le teorie puntavano l’accento su altri aspetti, es. la teoria pulsionale, sta di fatto che la prassi era già relazionale!]

 

Questo comporta che, accanto all’indispensabile conoscenza di teorie di riferimento e alla altrettanto necessaria acquisizione di abilità tecniche specifiche, resta centrale il fatto che il terapeuta deve possedere:

-        una buona disponibilità a “stare in relazione”

-        una sufficiente consapevolezza del proprio “modo di stare nella relazione” di volta in volta con il paziente.

 

Non bisogna sottovalutare il fatto che nella relazione – che in psicoanalisi, non a caso,  è soggetto, oggetto e strumento della trasformazione evolutiva che si auspica avvenga nell’analizzando – agiscono sempre due variabili fondamentali che esercitano un’influenza decisiva sull’andamento della relazione terapeutica stessa:

-        la soggettività (il modo d’essere “soggetto”, di stare al mondo) del paziente;

-        la soggettività del terapeuta.

 

Ciascuno dei due soggetti coinvolti nel dialogo, il terapeuta e il paziente, è quindi in ballo non solo come ruolo, ma come persona, con le sue caratteristiche profonde, consce ed inconsce, con la totalità della sua persona.

 

Che cosa differenzia allora, al di là del ruolo, il terapeuta dal paziente?

Ciò che dovrebbe differenziare il terapeuta dal paziente sta in una maggiore consapevolezza di sé nella relazione, una maggiore abitudine a fare attenzione agli atteggiamenti relazionali che di volta in volta si mettono in atto.

In questo consiste almeno la “responsabilità” che il terapeuta ha nei confronti del paziente.

 

Non dimentichiamo un aspetto molto importante in questo senso:

ovvero che il modo che ciascuno ha di relazionarsi a se stesso si ripercuote ed influisce nel modo di relazionarsi all’altro, soprattutto negli aspetti più “critici” della relazione.

 

Che cosa intendiamo per “modo di relazionarsi con se stessi”?

Generalmente noi tendiamo ad avere di noi una certa percezione, in occasione, per esempio, di eventi dolorosi che nel corso della vita ci “accadono”.

Possiamo cioè percepirci in due modi fondamentali:

-        come “oggetto in balìa” degli eventi, come qualcuno cioè che non può che subire passivamente in un senso di totale impotenza – atteggiamento frequente nel paziente;

-        come “soggetto” della propria vita, ovvero come qualcuno cui rimane in ogni caso uno spazio anche minimo di “scelta”, almeno nell’atteggiamento profondo con cui disporsi a vivere le vicende che “accadono” (“soggetto” quindi come “qualcuno che può scegliere”: se esserne consapevole o meno, se accoglierle o rifiutarle, relazionarcisi o contrapporvisi, quindi se “patire” nel senso di accettare ciò che sente o “subire” nel senso di sottomettervisi passivamente).

 

Nel secondo caso emerge una percezione di sé come “responsabile” di se stessi e della propria vita, anche in quelle situazioni che semplicemente “accadono”.

Quindi il passaggio da un atteggiamento da “oggetto in balìa” a “soggetto consapevole e responsabile” è ciò che restituisce vitalità, equilibrio e “senso” del proprio esistere.

Se ne deduce che la ricerca di quel senso di “soggettività” sia la strada della “guarigione”, ovvero la conquista di un maggior benessere realisticamente inteso.

 

Il percorso terapeutico spesso consiste proprio nel favorire questo recupero, anche parziale, di quote di “soggettività”, ed il terapeuta può porsi davvero come tramite per il paziente nella misura in cui si è impegnato in prima persona, in un suo percorso analogo, nel recupero della propria soggettività.

 

Da questo punto di vista si fa evidente quanto sia necessario per il terapeuta, ovvero per chi si avventura nel tentativo di conoscere e “trattare” le dinamiche psichiche altrui, per favorirne – per quanto possibile – una trasformazione evolutiva, che sia disponibile ad avventurarsi prima di tutto a contattare le proprie, ovvero si renda disponibile ad un lavoro su se stesso, che gli permetta di aprirsi a conoscere le dinamiche psichiche così come le sperimenta in prima persona.

Nell’entrare in relazione con l’altro e dialogare con lui noi comunichiamo a tanti livelli, consci ed inconsci, ciò che siamo, ciò che sentiamo, il nostro “pensare” e il nostro “patire”, il nostro riconoscerci come soggetti o come oggetti.

Entrano in ballo cioè, che ne siamo consapevoli o no, i nostri aspetti “personali”, i nostri atteggiamenti profondi verso noi stessi, verso l’altro, verso la vita, al di là dell’intenzione e del controllo cosciente.

E’ di queste caratteristiche del nostro essere, che inevitabilmente si ripercuotono nella relazione, che diventa necessario essere sufficientemente consapevoli.

Questo significa che ogni terapeuta della psiche, che sia un professionista “responsabile”, deve mettersi nelle condizioni di farsi consapevole delle proprie dinamiche di fondo, dei suoi principali “modi di funzionamento”: ovvero, le proprie “fragilità” e le proprie “risorse”, i propri “punti deboli e i propri punti di forza”.

 

Non a caso Jung già nel 1958, nel bellissimo testo “Pratica della psicoterapia”, dapprima esorta e infine arriva a  pretendere che l’analista sia egli stesso analizzato”, individuando in questa prescrizione l’unica via per aprirsi ad un metodo che sia veramente dialettico.

 

Che senso ha questa prescrizione? (che possiamo estendere alla necessità di fare comunque un lavoro su di sé, non necessariamente analitico, se non si fa l’analista!)

Non è la richiesta di alcuna fantomatica “perfezione” (fantasia tipica dei neofiti!), né la pretesa di alcun improbabile “equilibrio stabile”, come una presunta “stabilità” raggiunta e fissata una volta per tutte, cosa che poco si adatta alla realtà della vita psichica che è, per sua natura, dinamica.

 

Si tratta piuttosto di disporsi a “conoscersi” – l’antico adagio socratico: “Conosci te stesso” –  il che rimanda semmai ad aprirsi ad un “processo di conoscenza”, mai totalmente realizzato, ad una disposizione costante, ad un atteggiamento di fondo – che prevede l’abitudine a domandarsi, di volta in volta: Cosa sto provando? Perché sto provando questo? – più che ad un presunto obiettivo che  possa essere realizzato una volta per sempre.

 

Riconoscere questa necessità di lavoro su di sé è importante soprattutto perché le principali dinamiche psichiche di cui restiamo inconsapevoli  tendiamo quasi inevitabilmente a proiettarle sull’altro, sull’interlocutore delle relazioni significative.

Va da sé che tale proiezione, nel contesto di relazione psicoterapeutica, rischia di creare confusioni ed errori di valutazione che possono essere anche molto gravi.

 

Per questo se è certamente il caso di astenersi da tale professione (o pratica) se si è affetti da qualche grave patologia psichica, allo stesso modo è bene rendersi conto che ciascuno ha inevitabilmente le proprie dinamiche psichiche, le proprie tendenze i propri “complessi”, di cui è bene sia consapevole per imparare ad “usarli” al meglio.

 

Ma forse è qui il caso di distinguere tra vera e propria “patologia” e quelli che Jung chiamava i “complessi” ovvero quel genere di (fisiologica) sofferenza che fa parte di ogni vita, che ne segna le ferite interne, più o meno cicatrizzate, i punti deboli, le “mancanze”, tutti aspetti che ci motivano a cercare, ad aprirci all’altro, alla relazione.

 

i complessi – scrive Jung – sono normalmente punti focali degli accadimenti psichici  e, anche se dolorosi, non denotano disturbi patologici. La sofferenza non è malattia ma il normale polo contrario della felicità. Un complesso diventa morboso soltanto quando si crede di non averlo.”

 

Un atteggiamento equilibrato non consiste allora nell’assenza di sofferenza (o di travaglio o di domande aperte), bensì, al contrario, nel reggere l’esistenza di tali aspetti della vita, accettando di “patirli” senza per questo “subirli”.

 

Inoltre c’è un’altra buona ragione per cui è fondamentale che ogni terapeuta si attrezzi di un buon “lavoro su se stesso”:

oltre che per deontologia professionale ovvero per tutelare il paziente dalle proprie eventuali proiezioni di materiale inconscio, esiste anche la buona ragione di autoprotezione, la tutela della propria salute e serenità psichica.

 

Come il medico corre il pericolo di infettarsi, – scrive Jung – così lo psicoterapeuta è esposto al rischio di “infezioni psichiche”, non meno pericolose di quelle fisiche: egli rischia cioè da un lato di esser coinvolto nella nevrosi dei suoi pazienti; dall’altro, se cerca di proteggersi troppo dalla loro influenza, rischia di privarsi egli stesso della propria efficacia terapeutica. Il rischio, ma anche il successo della cura, si trova così tra Scilla e Cariddi.”

 

Nella pratica psicoterapeutica, infatti, l’attitudine sta ogni volta nel cercare la “giusta distanza” o “giusta vicinanza”, ovvero nel creare quel clima di contatto sufficientemente empatico da generare fiducia ed affidamento da parte del paziente, ma anche salvaguardare, contemporaneamente la possibilità di tornare quel distacco riflessivo che permettere di cogliere di volta in volta cosa sta accadendo e quale “atteggiamento”, quale “azione”, “gesto” o “parola” sia di volta in volta più efficace.

 

Su questo non c’è da scherzare: stare a lungo a contatto con la sofferenza psichica genera stress, e può indurre a ricadere nelle nostre antiche fragilità.

 

Entrare totalmente nel dolore ma anche imparare a tirarsene fuori, a non lasciarsene sopraffare o affascinare, non restarne invischiati: se si è imparato a farlo con il proprio, si ha la chance di poterlo fare con quello altrui.

 

Il concetto base in questa riflessione ha forse a che fare soprattutto con “la ferita” che ciascuno porta dentro di sé e che nel lavoro psicoterapeutico può evolvere, a seconda dei casi, o in forma di risorsa (il ponte che crea vicinanza empatica, che avvicina alla sofferenza dell’altro, che crea sintonia profonda ed induce la “voglia” di stare meglio,…) o, se rimane inconscia, in forma di trappola, di punto cieco, che deforma la visione di sé, dell’altro, della relazione e finisce per veicolare invece infezione psichica, come la chiama Jung.

 

Di questi tempi, in cui si tende a creare specializzazioni e a promuovere abilità tecniche, anche in ambito psicologico, non sembra più tanto “di moda” riflettere sulla motivazione profonda del terapeuta oltre che del paziente.

Eppure a me sembra di fondamentale importanza affacciarvisi ogni tanto per recuperare la base di una dimensione reciproca ed intersoggettiva potenzialmente sempre presente nel rapporto paziente–terapeuta ma di cui difficilmente si diviene consapevoli. [fatta salva la differenza tra “reciproco” e “simmetrico”].

 

Nel setting sono a confronto – e lo possono essere in maniere davvero varie, ma la sostanza rimane – due soggetti complessi, due mondi articolati entrambi aventi pari dignità ed entrambi mossi da una propria motivazione ad essere là.

Riconoscere il valore profondo della propria sofferenza, della ferita interna, per curare la quale, probabilmente ci troviamo a praticare questa professione, è l’unica strada che permette il riconoscimento profondo e dignitoso della sofferenza, propria ed altrui, anche quando l’altro la disconosce e tende a viversi piuttosto come “oggetto” in balìa del proprio malessere.

 

E’ molto evocativa a questo proposito, la metafora sciamanica del “guaritore ferito  che allude alla ferita del terapeuta, come a quella spinta che lo ha “costretto” a confrontarsi con la sofferenza psichica, a trovare una strada per accettarne l’esistenza, per imparare a conviverci, fino ad usarla come veicolo per il beneficio di altri.

 

Questo riconoscimento della “motivazione profonda del terapeuta a praticare la psicoterapia” aiuta forse anche a tenere a bada, attraverso il recupero di una sana umiltà, il principale “nemico” dello psicoterapeuta, ovvero il narcisismo.

Non c’è “eroismo”, né forse necessariamente “altruismo”: c’è semmai un bisogno profondo di “curare” se stessi che viene messo anche al servizio di altri.

 

Riassumendo:

essere disposti a coltivare la propria soggettività aiuta a cogliere e rispettare autenticamente la soggettività dell’altro, il che richiede grande umiltà e disponibilità all’ascolto empatico.

La disponibilità ad un lavoro costante su di sé è forse l’elemento più importante, per non rifugiarsi in sicurezze difensive che finirebbero per costringere in visioni rigide impedendo un autentico “spirito di ricerca” che è forse il motore principale della pratica psicoterapeutica.


Agnese Galotti


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