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Antoine Fratini
 TEORIA 

L'AVVENIRE DEL LETTINO

Gli articoli qui riportati, pubblicati di recente sul quotidiano Repubblica, forniscono l'occasione per tornare su alcuni punti relativi alla situazione della psicoanalisi e degli psicoanalisti oggi.

La fuga dal lettino di Freud

Repubblica — 02 ottobre 2008   pagina 1   sezione: PRIMA PAGINA

In America la pillola spodesta la parola. Più facile ricorrere al farmaco che alla psicoterapia. Agli effetti immediati della pasticca, piuttosto che a defatiganti colloqui sul divanetto, s' affidano sempre più gli psichiatri che operano negli Stati Uniti. La tendenza è stata documentata dalla autorevole rivista Archives of General Psychiatry, che ha fornito cifre significative: le cure medico-psicologiche oggi in corso in America soltanto per il 29% si basano sulla terapia della parola, mentre dieci anni fa la percentuale era intorno al 44%. Sempre più numerosi - dice ancora lo studio di Ramin Mojtabai e Mark Olfson - sono gli psichiatri specializzati in terapie farmacologiche e sempre meno quelli attrezzati per la psicoterapia. SIMONETTA FIORI

Ma nel futuro tornerà la cura della parola

Le teorie psicanalitiche, che nell' attuale era dei farmaci appaiono in crisi, hanno però, dietro l'angolo, la possibilità di una rivincita. Anzi, secondo alcuni esperti, il futuro del lettino è comunque assicurato, perché la "terapia della parola" conferma la sua efficacia contro alcune malattie mentali. Lo sostengono gli autori di uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association. L' articolo è il primo a parlare in questi termini della psicoanalisi e a essere pubblicato su una delle più importanti riviste scientifiche: l' aspetto interessante è che gli studi sui quali esso si basa non erano noti ai medici. Questo settore ha resistito all' indagine scientifica per molti anni, in considerazione del fatto che il processo della terapia è molto individualizzato e di conseguenza non si presta di per sé a un simile studio. La premessa fondamentale è l' idea di Freud che i sintomi affondino le loro radici in conflitti psicologici latenti, spesso presenti da lungo tempo, che possono essere portati alla luce in parte tramite un esame approfondito durante il rapporto terapeuta-paziente. Gli esperti nondimeno mettono in guardia dal rischio di dare un peso eccessivo alle conclusioni illustrate nell' articolo, ancora insufficienti a loro parere per affermare la superiorità della terapia psicoanalitica rispetto ad altre, quali la terapia cognitiva comportamentale o un approccio a più breve termine. Secondo loro, infatti, gli studi sui quali si basa la ricerca non sono sufficienti. «Questo studio però contraddice di sicuro il concetto che la terapia cognitiva o qualche altro trattamento a breve termine siano migliori» ha detto Bruce E. Wampold, presidente del dipartimento di consulenza psicologica dell' università del Wisconsin. «Quando è ben praticata, la terapia psicodinamica per alcuni pazienti si dimostra valida come qualsiasi altra e questo mi sembra determinante per una terapia intensiva simile». Gli autori della ricerca - il dottor Falk Leichsenring dell' università di Giessen e Sven Rabung dell' University Medical Center Hamburg-Eppendorf, entrambi in Germania - hanno analizzato i casi nei quali la terapia prevedeva incontri frequenti (più di una seduta alla settimana) e durasse da almeno un anno o che durasse da almeno 50 sedute. I ricercatori hanno quindi analizzato studi che avevano seguito pazienti affetti da una molteplicità di problemi mentali, tra i quali la depressione grave, l'anoressia nervosa, i disturbi della personalità borderline, caratterizzata dalla paura dell' abbandono e da cupi accessi e grida di disperazione e disagio. La terapia psicodinamica - ha spiegato Leichsenring in un messaggio di posta elettronica - "ha dato esiti significativi, considerevoli e stabili, che sono oltretutto significativamente aumentati tra la fine delle sedute vere e proprio e gli incontri di controllo successivi". Dall' analisi della ricerca non è emersa una correlazione diretta tra i miglioramenti del paziente e la durata del trattamento, ma il miglioramento è stato in ogni caso accertato e gli psichiatri hanno detto che era chiaro che i pazienti con problemi emotivi gravi e cronici avessero tratto vantaggio dall' attenzione costante e frequente dedicata loro dallo psicoanalista. «Se a grandi linee definiamo personalità borderline quella che preclude di regolare le proprie emozioni, questa caratterizza moltissime persone che si presentano negli ambulatori medici, anche se la loro diagnosi è di depressione, di bipolarismo in età pediatrica o di abuso di sostanze stupefacenti» ha detto il dottor Andrew J. Gerber, psichiatra della Columbia.
Per alcuni di questi pazienti, ha proseguito Gerber, "dall' articolo si evince che se si vuol far sì che i miglioramenti durino nel tempo occorre impegnarsi in una terapia a lungo termine". Barbara L. Milroad, professoressa di psichiatria al Weill Cornell Medical College, che pratica come Gerber la terapia psicodinamica, ritiene di importanza fondamentale procedere a ulteriori studi per garantire la sopravvivenza di una terapia così valida.
«Cerchiamo di essere concreti» ha detto Milroad. «Molti grandi centri medici hanno chiuso i programmi di tirocinio in terapia psicodinamica perché non c' erano adeguati riscontri sulla sua efficacia». c.2008 New York Times News Service (Traduzione di Anna Bissanti) -
BENEDICT CAREY

 

Entrambi gli articoli poggiano su studi statistici che coinvolgono psichiatria e psicoterapia (compresa quella analitica). Il primo tende a dimostrare quanto le terapie psicodinamiche siano in ribasso rispetto a quelle psicofarmacologiche. Trattasi di un trend inesorabile la cui evidenza è stata denunciata in numerose occasioni da vari autori tra cui spicca quelli particolarmente efficaci di J.A.Miller che, dopo molti anni passati quasi in silenzio ad occuparsi esclusivamente della trascrizione dei seminari del genero Lacan, è finalmente uscito allo scoperto denunciando i pericoli che la psicofarmacologia e la psicoterapia tecnica comportano oggi. Nell’articolo non vi è nessuna novità vera e propria in questo senso, ma una importante conferma vagliata questa volta da una statistica recente.

 

Vorrei però ribadire una considerazione difficilmente confutabile anche se priva (a mia conoscenza) di riscontri statistici: nel muovere simile denuncia riguardante la “farmaceutizzazione” dell’utenza psicologica  gli psicoanalisti sono nettamente più numerosi e puntuali degli psicoterapeuti. Il motivo della riservatezza di questi ultimi va ricercato secondo me in quella specie di “matrimonio felice” instauratosi tra psichiatria e psicoterapia e dal quale è nato un nuovo tipo di approccio che ha spopolato negli USA e si sta affermando sempre più anche in Europa: le cosiddette “terapie combinate”. Come dice il nome, queste si distinguono per il fatto di combinare terapie di tipo psicodinamico (soprattutto comportamentismo e cognitivismo) con trattamenti farmacologici. Tale approccio può esplicarsi per esempio nel “somministrare farmaci la mattina e nel fare sedute il pomeriggio” o nel fare seguire un paziente da uno psicoterapeuta sotto stretto controllo di uno psichiatra., a secondo naturalmente delle possibilità e della convenienza di entrambi. Come affermai in passato[1], la psichiatria tende a coinvolgere la psicoterapia, piuttosto che ad escluderla, nell’intento abbastanza chiaro di darsi buona coscienza e respingere le accuse di ridursi a somministrare farmaci in modo sistematico senza interessarsi adeguatamente alla persona. Essendo tali accuse giustificate e provenendo a volte anche da autori importanti, esse devono essere verosimilmente percepite come pericolose per lo sviluppo e la diffusione della psichiatria. Dal canto suo la psicoterapia, diventando sempre più tecnica e sempre meno umanistica, oppone sempre meno resistenze all’instaurarsi di simili collaborazioni.

 

Di fronte ad una offensiva così forte e a volte anche intellettualmente scorretta[2], l’attività psicoanalitica si avvicina sempre più a quella descrizione di “mestiere impossibile” data da Freud. Influenzati dalla moda delle psicoterapie, gli utenti attuali tendono a considerare i trattamenti lunghi inadeguati e la rimessa in questione soggettiva un impegno troppo gravoso, se non addirittura pericoloso per la loro stessa integrità. Sicché risulta sempre più difficile fare loro capire e accettare le regole più basilari della psicoanalisi. Le loro motivazioni sono sempre più circoscritte alla cura del sintomo, mentre le loro pretese di efficacia e efficienza del trattamento, anche nel caso di problematiche esistenziali, risultano sempre più deresponsabilizzanti. Tale risultato è forse uno degli effetti psicologicamente più reale (in senso psicoanalitico) prodotto dalla chimica.

 

Nell’ambito psicoterapeutico il cognitivismo, che potremmo considerare una forma superficiale di analisi psichica finalizzata alla individuazione e alla ristrutturazione di pensieri problematici, tende ad essere inglobato e annullato dal comportamentismo che, nella sua ultima evoluzione denominata Acceptance and Commitment Therapy (ACT)[3], considera l’attività di pensiero alla stessa stregua di un comportamento e come tale si propone di trattarlo. Egregi signori, se per la vostra nuova teoria vi fa difetto un simbolo, perché non prendete la famosa statua del “pensatore” di Rodin?!

 

Il secondo articolo prende spunto da uno studio pubblicato su di una accreditata rivista americana, il Journal of the American Medical Association, che afferma la stessa efficacia del trattamento analitico rispetto alla psicoterapia comportamentale per tutta una serie di disagi di varia natura e gravità. L’articolo insiste inoltre sulla persistenza degli effetti benefici a distanza di tempo dalla fine del trattamento analitico. Come scrissi in precedenti occasioni, più reali delle statistiche nel nostro campo sono i riscontri soggettivi degli analizzandi.
Pertanto, anche se gli esiti di questi studi sembrano positivi per la psicoanalisi, non percorreremo comunque questa strada per non metterci sullo stesso piano di chi intende passare al vaglio della “scienza oggettiva” una disciplina che indaga la soggettività o, se si preferisce, quella “realtà psichica” per l’affermazione della quale gli psicoanalisti di oggi incontrano le stesse imponenti difficoltà che vi erano ai tempi di Freud . Sotto a questo aspetto si può dire che poco o nulla è cambiato. Non si deve dimenticare che alla fine è sempre l’analizzando a verificare, a volte addirittura sul proprio corpo, l’effetto dell’inconscio e delle sue verità nell’interpretazione. Non è di statistica cui la psicoanalisi ha bisogno. L’avvenire del lettino (o della poltrona) non passerà certo da lì. Volere prendere una statistica per buona perché positiva nei confronti della psicoanalisi potrebbe addirittura rivelarsi un passo falso per gli psicoanalisti. In effetti, c’è da scommettere che non sempre tali riscontri “oracolari” potranno essere così clementi. Che lo siano o no, a prenderne atto saremmo già scivolati nel scientismo psicologico che confonde l’essere allo specchio con l’essere vero senza fare una piega. Occorre invece insistere sulla natura soggettiva delle verità che emergono in analisi, sulla priorità accordata alla finalità conoscitiva rispetto alla cieca “cura del sintomo”, sulla immancabile struttura significante che quest’ultimo rivela durante il processo associativo e nel transfert. Occorre altresì ribadire con forza che una cura psicologica, per essere tale, deve anche soddisfare l’appetito di senso del soggetto e che la scomparsa duratura di un sintomo si accompagna sempre ad un cambiamento della personalità. Diversamente, ogni tentativo di eliminazione dell’inconscio (perché la posta in palio è questa) ci avvicinerebbe allo spettro della “soluzione finale” già ipotizzata dall’eminente luminare della psichiatria italiana Paolo Pancheri[4].
Tecniche psicoterapiche adagiate su un divano di pillole colorate per i palati mentali più raffinati, sarà questo l’avvenire del lettino?

 



[1] A.Fratini, Psicoanalisi sotto tiro, www.aepsi.it

[2] vedi Il libro nero della psicoanalisi (C. Meyer, Fazi 2006) che critica la validità dell’esperienza analitica senza premettere che nel farlo utilizza criteri oggettivanti impropri alla natura e alla finalità stesse della psicoanalisi.

[3] Terapia dell’Accettazione e dell’Impegno

[4] Lettura introduttiva del Presidente della Società Italiana di Psicopatologia al 50° Congresso Nazionale, http://www.oism.info/it/terapia/etica_deontologia/ad_2045.htm


Antoine Fratini


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