Individuazione
Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell'Associazione G.E.A.
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Marzo 2004 Pag. 12° Agnese Galotti


Agnese Galotti

 RECENSIONI 

"IL PONTE: UNA METAFORA DEI PROCESSI PSICHICI"

Il ponte é una metafora di cò che mette in relazione unità che stanno tra loro distanti

oltre che distinte, rendendo possibili passaggi e congiunzioni altrimenti impensabili.
Immagine concreta del simbolo, il ponte rimanda a ciò che l'uomo ha imparato a costruire per superare la condizione dolorosa e paralizzante di scissione e isolamento tra sé e l'altro (dimensione interpersonale) o tra parti di sé (dimensione intrapsichica).
L'esperienza del conflitto, la sofferenza della separazione e contemporaneamente l'attrazione verso ciò che è sconosciuto, la spinta verso l'oltre, l'altro, il diverso, ha attivato nell'essere umano la capacità creativa di gettare dei ponti (il linguaggio, la metafora, il dialogo, …) che consentono comunicazione e possibilità di incontro tra differenti sponde, senza per questo ostacolare né ostruire il fluire di ciò che in mezzo scorre.
"Dove si costruiscono ponti non ci sono assimilazione, fusione o identificazione totali, ma neppure scissione o isolamento." Il ponte è cioè esperienza concreta di unità e diversità insieme, di opposti che solo in quanto si sono riconosciuti tali possono infine arrivare a congiungersi.
Rosemary Gordon, psicoanalista junghiana della scuola londinese, riflette in questo suo recente lavoro (appena tradotto in italiano ma pubblicato in Inghilterra nel '93) sulla metafora del ponte considerata da vari punti di visione: archetipico, antropologico, letterario e, non ultimo, quello del dialogo, necessario e fecondo, tra differenti correnti psicoanalitiche.
In ambito junghiano la scuola inglese, di cui l'autrice è _ insieme a Michael Fordham _ una delle più autorevoli rappresentanti, si è negli anni distinta per la sua tradizionale apertura agli influssi del pensiero di M. Klein, Bion e Winnicott, dando prova di una notevole capacità creativa e sincretica. Senza snaturare la sua autentica radice junghiana, la Gordon, grazie alla sua peculiare attitudine a gettare ponti tra scuole di pensiero differenti, mostra come gli stessi concetti fondanti la teoria di Jung, quale quello di archetipo, di Sé e di individuazione, possano trovare in questo confronto ulteriore sviluppo e chiarificazione.
Per quanto riguarda la rivisitazione del concetto di archetipo l'autrice si avvale di un ponte che getta tra Jung e Winnicott, tra il "luogo dell'esperienza archetipica" tracciato del primo e lo "spazio transizionale" o "terza area"descritto dall'altro.
Ne emerge una ricca riflessione teorico pratica sul modo di volta in volta più adeguato di relazionarsi, nell'ambito dell'esperienza analitica, con la potenza degli archetipi, senza restare impigliati in grossolane identificazioni e proiezioni degli stessi, in una percezione distorta del reale, e senza peraltro finire per epurare difensivamente la propria esperienza di vita dalla loro energia potente e creativa.
"Ritengo che sia possibile evitare l'identificazione con figure archetipiche o la proiezione di contenuti archetipici, rimanendo tuttavia consapevoli che essi possono arricchire e ravvivare il nostro mondo interiore, così da attivare l'immaginazione, la creatività, nonché il senso di ciò che è maestoso, misterioso e ricco di significato." L'autrice evidenzia come l'area intermedia dell'esperienza, quella in cui origina l'oggetto transizionale, che è "dato e creato insieme", rappresenti il primo tentativo, nell'esperienza infantile, di coniugare realtà e fantasia, mondo interno e mondo esterno; questa "terza area" rappresenta quindi il luogo dell'esperienza in cui si sviluppa la capacità di fare simbolo e, gradualmente, diviene "la fonte del gioco, dell'immaginazione, della cultura, della religione e dell'arte." Questa stessa area _ che è dall'autrice identificata quale "luogo psichico appropriato all'attività e alla percezione dei processi archetipici" - entra inevitabilmente in gioco nella delicata dimensione transferale propria della relazione analitica, offrendo così l'opportunità di imparare a relazionarcisi in maniera sana, districandosi gradualmente dalle tendenze identificative e proiettive.
A proposito del concetto di Sé, altro caposaldo della teoria junghiana, l'autrice rileva come esso risulti spesso ambiguo e complesso, nelle formulazioni psicoanalitiche, essendo utilizzato varie volte dai medesimi autori (Jung compreso) secondo accezioni e significati talvolta anche molto diversi tra loro, che non sempre vengono specificati.
In alcuni casi Sè indica la totalità cosmica originaria (il Tao orientale), in altri casi sta per la totalità dell'individuo (conscio e inconscio insieme), talvolta indica l'esperienza soggettiva della totalità (il "sentimento oceanico" di Roman Rolland), talaltra ne rappresenta la "pulsione verso" (la totalità, la sintesi, l'unione).
Per non parlare poi delle formulazioni psicoanalitiche di altra estrazione (Hartmann, Winnicott, ecc..) in cui il concetto di Sé assume in generale il significato di "rappresentazione psichica di se stessi", con alcune eccezioni (Kohut e Masud Khan) in cui sarebbe percepibile, secondo l'autrice, "un impercettibile slittamento di senso dall'idea del Sé come se stesso verso un concetto di Sé più vicino a quello formulato da Jung".
La complessità del tema merita adeguati approfondimenti. Di notevole interesse teorico-pratico risulta, a mio parere, il tentativo dell'autrice di chiarire i termini, talvolta ancora troppo confusi, raggruppando il concetto di Sé secondo tre differenti strutture concettuali:
- il Grande Sé (di Jung) come concetto metapsicologico che indica la totalità della psiche (conscia e inconscia), fonte di simboli di totalità ed eternità e di pulsioni che spingono verso l'unione e la fusione (percezione dell'universale); - il Sé Primario o originario (di Fordham), quale totalità elementare scarsamente differenziata presente nel bambino molto piccolo, matrice di tutte le facoltà potenziali dell'individuo che verranno attualizzate dal gioco di processi di de-integrazione e integrazione; - il Piccolo Sé, che designa l'esperienza che si ha di se stessi e la consapevolezza della propria identità personale (il Sé di Kohut e Kernberg).
Il Grande Sé _ diverso quindi dalla totalità originaria ed indifferenziata, e diverso anche dalla mera consapevolezza della propria identità personale _ sarebbe la meta del processo di individuazione.
Tale processo è rappresentato, secondo la Gordon, "da un'interazione e un'interrelazione crescenti fra l'Io e il Sé, fra la coscienza e l'inconscio, fra il personale e il transpersonale" fatta di ponti e passaggi sempre più fluidi e sempre meno rigidi, in cui i confini, pur facendosi sempre più permeabili, permangono tuttavia distinti e compresenti.
A questo proposito la Gordon critica la tendenza di alcuni seguaci di Jung a sottovalutare l'importanza della dimensione fisica e biologica a favore di ciò che è incorporeo ed astratto, proponendo una nuova comprensione ed integrazione "del pensiero di Jung intrinsecamente dialettico e dinamico".
Particolarmente ricca di stimoli è poi la rivisitazione che l'autrice compie di concetti come: identificazione proiettiva, transfert e controtransfert, cura e guarigione, utilizzando abilmente e generosamente materiale clinico in cui, come analista, è particolarmente messa in gioco.
Un'ulteriore aspetto cui la Gordon presta attenzione è il tema della creatività, e si sente come sia argomento a lei caro.
Diversamente dal conflitto, di cui rappresenta in certa misura il superamento, "la creatività implica il gioco e il paradosso", nel realizzarsi di una danza tra opposti che, anziché scindersi o fondersi rovinosamente, trovano finalmente un ponte che li mette in relazione.
(*) Rosemary Gordon: "Il ponte: una metafora dei processi psichici" -Boringhieri 2003


Agnese Galotti


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